30 marzo 2015

Divisione Caring: Comunicato 30 marzo 2015


In Telecom Italia si respira un clima sempre più teso, nonostante ci siano tutti gli elementi per guardare con più ottimismo al futuro. L’azienda è uscita dalla fase di crisi, non è più nel giogo di Telefonica, è tornata agli utili e ai dividendi, ha un progetto di crescita sostenibile grazie alla fibra, ha denaro a bassissimo tasso d’interesse, ed ha un quadro sul lavoro di ampia scelta. Ma nonostante questo l’azienda insiste sullo spezzatino (societarizzazione) e sulla chiusura delle sedi, che non ha ragioni, se non quelle di far pagare ai lavoratori l’esito del referendum. Piuttosto che guardare alle proprie responsabilità Telecom, continua a SCARICARE SUI SINGOLI LAVORATORI LA DISASTROSA (DIS)ORGANIZZAZIONE AZIENDALE. Questo era l’obiettivo dell’ipotesi di accordo sul Caring e dell’attuale subdolo tentativo che sta attuando in Open Access. Abbiamo già denunciato situazioni di palese controllo della produttività individuale, costruito evidentemente e illegittimamente attraverso i sistemi informatici, abbiamo segnali di un aumento delle pressioni individuali sugli addebiti U009 e addirittura qualche zelante dirigente si è inventato un indice di produttività individuale (IPOA) come se i tecnici fossero liberi professionisti. Nel Caring, fallito il blitz sul controllo produttivo, lo scontro su societarizzazione e chiusure sedi è ancora aperto, le condizioni di lavoro peggiorano sempre di più: zero off-line per concludere le pratiche, zero pause, zero secondi tra una chiamata e l’altra, zero formazione, zero back office e trasparenza sui flussi di chiamate. Nel frattempo l’azienda presenta da sola il piano industriale e le assunzioni, sostenendo che applicherà la solidarietà espansiva. Con chi la concorderà ? con quali tutele per i lavoratori ? chi pagherà ? Tanti, troppi segnali in Telecom e nei Call Center che c’interrogano su quale ruolo deve esercitare un sindacato realmente rappresentativo. Sottostare ai continui ricatti ? Quale sarà la prossima deriva? lavorare per pochi spiccioli e a condizioni inaccettabili ? Purtroppo le divisioni sindacali si moltiplicano e le aziende ringraziano, ma si ricordino che, pace sociale e sacrifici per i soli lavoratori, senza obiettivi condivisi, prima o poi, non stanno insieme.

Comunicato 30 marzo 2015
Da un po’ di tempo sul nostro territorio si susseguono comunicati, assemblee, incontri, sul tema del Caring.
Non è nostro costume commentare o delegittimare le iniziative delle altre OO.SS. confederali, ma purtroppo, dobbiamo rilevare che a distanza di 2 mesi dal referendum, si fatica a prendere atto dell’esito del voto che, per noi resta il punto da cui ripartire se si vuole veramente contrastare la societarizzazione annunciata dall’AD di Telecom Italia.
Per far ciò sarebbe bene cessassero tutte le azioni che hanno come scopo di spiegare ai lavoratori che non hanno capito l'accordo o che sono stati influenzati dalle RSU dissidenti della Slc-CGIL. Rappresentare i lavoratori non può tradursi nello spiegargli che hanno sbagliato ad esprimere il loro voto.
Noi perseguiamo lo scopo, conseguente al voto, di riaprire la trattativa con Telecom. Noi vogliamo tornare a discutere i termini dell'accordo, vogliamo trattare sulla base dell'esito del referendum e scongiurare la societarizzazione che, vorremmo ricordarlo, finché non sarà deliberata dal CDA e poi messa in campo operativamente può essere evitata.
Questo va fatto, questa deve essere la strada maestra per tutti. È necessario avviare il percorso trovando soluzioni alternative in grado di conciliare i diversi interessi in campo dei lavoratori e dell'azienda.
Per far ciò è necessario innanzi tutto sgombrare il campo da tutto il resto. Non aiuta la denigrazione perpetrata da chi il referendum l'ha perso, e non aiuta che l'azienda parli di solidarietà espansiva lasciandosi “scappare” date e percentuali. Senza un accordo col sindacato Telecom non può procedere a nessuna solidarietà. Noi consideriamo impraticabile questo strumento in assenza di congrua integrazione salariale. Non si può, tra l'altro, neanche immaginare una applicazione della solidarietà espansiva prima di aver trovato una soluzione che eviti la societarizzazione del Caring.
Fare sindacato non è scaricare la responsabilità sui lavoratori praticando l'immobilismo.
Dobbiamo e vogliamo insieme agli altri soggetti in campo farci carico delle istanze che il Referendum ci ha consegnato.
Noi siamo pronti. È più che mai necessario aprire un tavolo che, partendo dal piano industriale, discuta del futuro di Telecom e scongiuri la societarizzazione, per altro in esso non prevista.
A gran voce chiediamo alle altre OO.SS. di smetterla di perder tempo, usciamo da questa fase di immobilismo, se davvero non si vuole la societarizzazione procediamo unitariamente, facciamolo nel rispetto dei lavoratori e del loro voto.


La RSU ed il Coordinamento Regionale Sicilia

26 marzo 2015

Call Center Qè di Paternò: Ottima affermazione della SLC CGIL di Catania

Comunicato Stampa
“ Ulteriore successo della Slc CGIL questa volta nelle elezioni RSU Call Center Qè Paternò”
il 23 e il 24 marzo 2015 si sono svolte le elezioni per il rinnovo delle RSU presso il call center Qè di Paternò.
Anche in questa occasione si è registrata la grandissima affermazione della SLC CGIL di Catania che con 145 voti sui 250 aventi diritto al voto si afferma in assoluto quale primo sindacato del settore conquistando ben 2 RSU su 3 e 2 RLS su 3.
Gianluca Patanè responsabile per la SLC CGIL Catania del settore Telecomunicazioni a tal proposito dichiara “ In Qè ha trionfato il gruppo, si è trattato del successo assoluto  di un insieme di lavoratori, un grande gruppo dirigente,  che da anni si spende per l’occupazione e la tutela dei diritti collettivi ed individuali delle lavoratrici e dei lavoratori del call center. Adesso, nella conclamata crisi del settore dobbiamo continuare a impegnarci affinchè si possa uscirne senza danni anzi rilanciando ancor di più sui temi a noi cari: lavoro ed inclusione”.

Il Segretario Generale della SLC CGIL di Catania Davide Foti  aggiunge “ questa ennesima vittoria in una compezione elettorale per il rinnovo delle RSU è una conferma della condivisone , tra i lavoratori, della validità delle nostre scelte di politica sindacale nel settore ed in azienda. Le lotte da noi lanciate e sostenute per avere regole e leggi condivise in materia di appalti da assegnare non più con le gare al massimo ribasso, la battaglia contro la politica dell’off-shoring, le iniziative contro la pratica della delocalizzazione dei servizi e la battaglia per la tutela dei lavoratori in caso di cambio d’appalto per ciò vanno ancora di più rilanciate. Ringrazio, ancora una volta, tutto il gruppo dirigente ed i lavoratori che con questo voto hanno dato ancora una vota fiducia alla CGIL e mi complimento con i neo eletti Valentina Borzì ( RSU/RLS), Giovanni Arcidiacono ( RSU ) e Ester Caruso ( RLS ) per il costante impegno ed il grande lavoro svolto nonostante le difficoltà del momento.
Il Segretario Generale SLC CGIL Catania
( Davide Foti )
Nota di redazione:

  • Nella prima foto in alto Gianluca Patanè, responsabile per la SLC CGIL Catania del settore Telecomunicazioni.
  • Nella seconda foto Il Segretario Generale della SLC CGIL di Catania Davide Foti 

20 marzo 2015

Call center, Azzola: "Con Jobs Act rischio dumping per tutto il settore"

di Federica Meta
“Il Jobs Act per il settori labour intensive, come sono i call center, sarà un disastro”. Non usa mezzi termini Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil, per giudicare le nuove regole del mercato del lavoro varate dal governo Renzi.

Addirittura un disastro. Perché?
Andiamo per ordine, iniziamo con i call center inbound. In quel settore il contratto a tutele crescenti normato dal Jobs Act e le incentivazioni introdotte con la legge di stabilità stanno mettendo in piedi in meccanismo drammatico.

Quale?
Un nuovo imprenditore che partecipa a una gara per i servizi di call center calcolerà il costo del lavoro al 30% in meno, una percentuale figlia della mancata contribuzione. L’effetto sarà quello di riuscire a fare proposte di prezzo sul mercato inferiori rispetto alle aziende che già vi operano e, con tutta probabilità, di vincere la gara facendo dumping sul costo del lavoro. L’occupazione sarà, inoltre, un’occupazione più precaria perché inquadrata con le tutele crescenti e non sarà nemmeno da considerarsi nuova occupazione.

Il motivo?
Le assunzioni che saranno conteggiate per sostenere le ragioni di chi ha voluto il Jobs Act,  in realtà non saranno nuova occupazione ma sostituzione di lavoratori messi fuori mercato dal Governo e per i quali la collettività pagherà due volte: una prima per gli incentivi introdotti e una seconda per gli ammortizzatori sociali di chi perderà il lavoro. Complessivamente, i meccanismi messi in moto dal governo non possono funzionare in Italia perché, da noi, mancano norme che tutelano i lavoratori nei cambi di appalto così come avviene in tutta Europa; mancanza che ha impatti negativi non solo sui diritti ma anche sulla qualità del servizio reso. Nella maggior parte dei casi gli addetti ai call center sono lavoratori qualificati a rispondere a quesiti complessi - è il caso dell’Inps, dell’Inail ad esempio – e se non viene garantita loro la continuità occupazionale, in caso di cambio di commessa, a rischiare è tutto il servizio.

Il governo ha mantenuto i co.co.pro per gli addetti outbound. Come giudica la scelta?
Le norme prevedono che si possano mantenere i co.co.pro. previo accordo con le parti. Ma a quali parti fa riferimento il governo? I contratti a progetto oggi sono regolati da due accordi: quello dell’agosto 2013 firmato da Cgil, Cisl e Uil con Assocontact che stabilscono dinamiche retributive crescenti e diritti in tema di maternità, ad esempio. Poi ce n’è un altro firmato da Ugl e una associazione datoriale di nuova costituzione, Assocall che stabilisce la paga oraria a 2,5 euro l’ora, in pratica meno della metà di quella definita nell’intesa dei confederali. Allora a quale accordi si deve fare riferimento quando si decide di mantenere i co.co.pro? A quello a retribuzione crescente oppure a quello che attiva dinamiche di dumping e distrugge i diritti? La crisi occupazionale nei call center andrebbe affrontata con un progetto sistemico per il settore all’interno del quale ragionare sulle modalità contrattuali più opportune. Fatta in questo modo  la decisione di mantenere i co.co.pro. per alcune professionalità sembra l’ennesimo favore fatto alle imprese.

14 marzo 2015

L'Italia non è un paese per donne che lavorano

di Serena Sorrentino
Il Jobs Act non servirà né a migliorare la qualità dell'occupazione, né a determinare una crescita dell'occupazione se non in ragione dell'esonero contributivo previsto dalla scorsa legge di stabilità. Il tema cruciale dell'occupazione femminile e delle misure di conciliazione figura tra i titoli della legge delega 183/14, ma se andiamo a vedere nel concreto notiamo più ombre che luci nello schema di decreto dedicato a misure sperimentali volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Al di là dello specifico decreto, in generale il Jobs Act non prende in esame il tema delle disuguaglianze di genere e, come spesso abbiamo rilevato in questi anni, una politica fintamente paritaria dal punto di vista dell'opportunità se non si fa carico del differenziale rischia di aumentare il gap di genere.

Il primo atto del Jobs Act, cioè l'intervento sul contratto a termine proposto con la legge 78/14 (decreto Poletti) incentivando la acausalità dei contratti e la loro reiterazione, di certo avrà un effetto elusivo sul tema conciliazione lavoro/maternità; abbiamo infatti constatato in questi anni che la precarietà non solo scoraggia il rientro nel mercato del lavoro dopo la maternità ma contratti di breve durata prevengono il caso in cui una lavoratrice in forza entri in maternità e il conseguente percorso di "attenzione" che l'azienda deve riservarle, perché i contratti durano talmente poco da aggirare il tema.

Il contratto a tutele crescenti ha effetti distorsivi sulla stabilità del tempo indeterminato sia per uomini che donne, ma sicuramente è un brutto segnale che in occasione del riordino della disciplina dei licenziamenti non si sia resa organica la norma sulle dimissioni in bianco. Già fu un colpo di mano quello di bloccare la legge riapprovata alla Camera inglobando il tema in Senato nel ddl delega lavoro. Ora col Jobs Act siamo in presenza di norme che deregolamentano i licenziamenti illegittimi, limitando la funzione del giudice, restringendo l'ambito del discriminatorio, a norme che hanno per forza di cose bisogno di compensazioni normative su diritti universali e indisponibili come ad esempio la maternità.

Difatti, il governo propone un decreto “ad hoc”, perché se aumenta la precarizzazione, si cancellano sia le norme a protezione dei diritti delle persone che lavorano che gli strumenti sanzionatori degli abusi, e dunque le donne lavoratrici saranno di certo più esposte. Siccome nel Jobs Act si interviene su discipline quali orari, mansioni, tipi contrattuali, nella bozza di decreto sui congedi si puntualizzano alcuni aspetti che diventano fondamentali per preservare leggi come la 151/2001 molto avanzate ancora oggi.

Alcuni esempi possono essere la tutela in caso di parti prematuri prolungando il periodo di congedo, la tutela in caso di problemi del nascituro prevedendo flessibilità nel ricorso al periodo di congedo, la tutela nel percepimento dell'indennità di maternità anche in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel periodo di congedo per giustificate ragioni (articoli 2 e 3 schema dl). Questi esempi ci fanno capire come, avendo reso più facili licenziamenti e reso meno tutelate le condizioni di lavoro, ci sia bisogno di “proteggere” diritti fin qui dati per consolidati e indiscutibili.

Ci sono poi elementi di modernizzazione frutto delle nostre battaglie di questi anni, molte delle quali già contrattualizzate. In questo caso, si può sottolineare come l'estensione dei congedi in caso di affido e adozione, la rimodulazione del congedo di paternità (anche se noi continuiamo ad auspicare che un periodo diventi obbligatorio per incentivare la cultura della condivisione delle responsabilità genitoriali) (artt. 4-5-6-7), così come l'estensione temporale dei periodi in cui è possibile fruire di congedi (fino a 12 anni del bambino) e dei congedi frazionati su base oraria nel pubblico e nel privato, sia un primo passo in avanti.

La parte relativa al lavoro autonomo e parasubordinato prevede un'estensione delle prerogative della 151/01 e il principio da noi sempre affermato che in caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro alla lavoratrice le sia corrisposta comunque un'indennità di maternità senza penalizzazioni. Alle lavoratrici “libere professioniste” viene estesa la previsione di maternità e congedi con riferimento al “proprio ente previdenziale”. Nulla si dice sulla disciplina della contribuzione, né sulle modalità di fruizione, come a voler dire mettiamo il “titolo”, ma non sapendo bene che fare. Per questa ragione ci sarà bisogno di una disciplina universale della maternità/paternità, come la Cgil ha sempre sostenuto che ricodifichi l'istituto per subordinati e autonomi garantendo stessi diritti.

Sulla violenza di genere, seppur positivo che si affronti il tema dell'astensione protetta non si comprende perché, ad esempio, debba valere solo per dipendenti o collaboratrici a progetto, escludendo tutti gli altri casi o perché si prevedano tre mesi di astensione come se tutte le violenze fossero uguali e non rimandando a valutazione dei periodi ai servizi sociali che prendono in carico la donna vittima di violenza. Le risorse per finanziare queste prime misure sono sottratte ad altri capitoli del lavoro e sulla conciliazione il dl rimanda a successive linee guida.

Siamo alla svolta dunque? Diremmo di no, sia per la parzialità del campo preso in esame, sia per l'insufficienza di risorse, sia per la logica in cui viene considerato il lavoro femminile continuando ad incentivare non le misure di accompagnamento e crescita professionale, di reinserimento post-maternità, ma guardando a come unica soluzione il telelavoro o tempo parziale, strumenti utili ma se frutto di scelte libere esercitabili solo in caso rappresentino una vera alternativa e non l'unico modo per poter continuare a lavorare.

L'occupazione femminile ha bisogno di strumenti che incentivino ingresso e permanenza delle donne nel mondo del lavoro con un piano straordinario di implementazione dei servizi di cura, assistenza, educativi e sui tempi delle città, come la Cgil ha proposto nel Piano del lavoro. Alla luce di quanto finora fatto dal governo, esaminato il Jobs Act, dovremmo dire che la strada di conquiste è ancora in salita e che l'Italia continua a non essere un paese per donne che lavorano.


 Segretaria conederale Cgil

Call center, un disastro all’italiana. Delocalizzazioni selvagge. Gare al ribasso. Incentivi indiscriminati.


http://espresso.repubblica.it
Call center, un disastro all’italiana
Domenica 15 tocca ai lavoratori di Almaviva, che dopo aver lanciato una campagna virale su twitter e Facebook , hanno organizzato un flash mob in piazza Politeama a Palermo. Martedì 10 a manifestare sono stati gli operatori del servizio informazioni del comune di Roma, che col cambio d’appalto rischiano di restare in 280 senza impiego. Pochi giorni prima era stata la volta dei dipendenti Infocontact, che a Cosenza hanno bloccato l'uscita dell'autostrada e poi la statale tirrenica.

Scene di una settimana-tipo nel mondo dei call center: braccia incrociate, proteste, sit-in. Fra delocalizzazioni selvagge, appalti che coprono a malapena il costo del lavoro e incentivi che hanno drogato il mercato e fatto la fortuna di imprenditori spregiudicati, a essere in fermento è infatti tutto il settore: 2,6 miliardi di fatturato l’anno e 82 mila lavoratori (un quarto i laureati), ben il 12 per cento più dall'inizio della crisi.

I tavoli di crisi al ministero sono diventati una routine e adesso rischia di mettersi di traverso anche il Jobs act, le cui tutele saranno pure crescenti ma partono da zero. E questo, unito alla decontribuzione per 36 mesi prevista per le start up, in un settore in cui il 60 per cento del personale ha un contratto a tempo indeterminato può far venire una tentazione: chiudere, riaprire (o creare new company) e assumere chi è a spasso col nuovo contratto. Con tanti saluti alle garanzie acquisite.

«Il rischio è che questi provvedimenti diventino una semplice “circolazione” di lavoro che già esiste» spiega Riccardo Saccone, coordinatore nazionale Telecomunicazioni della Slc-Cgil. «Ma con un pericoloso elemento di appetibilità in più: nei call center ci sono decine di migliaia di stabilizzati e molte aziende potrebbero puntare a sostituire i contratti vecchi col nuovo. E in un settore ad alta intensità di lavoro come questo sarebbe un bagno di sangue, senza peraltro creare un posto in più».

Non solo. Presentando la riforma del governo, il premier Matteo Renzi ha rivendicato “la rottamazione dei cocopro” . Solo che i lavoratori atipici dei call center in outbound (quelli delle proposte di contratti telefonici o delle ricerche di mercato) sopravviveranno al nuovo corso. Per loro il provvedimento prevede infatti un’eccezione, dunque nessuna speranza di essere stabilizzati. Il motivo? C’è già un accordo sindacale: un minimo di 4,78 euro l’ora. Non proprio una blindatura da nababbi per chi non guadagna più di 500-800 euro al mese.

E LO STATO PAGA (DUE VOLTE)
L’emblema di questa situazione è il caso Almaviva, che coi suoi circa 10 mila dipendenti (23 mila in tutto il mondo) è una delle più grandi aziende del settore. Controcorrente, a suo modo: niente delocalizzazioni per le commesse italiane, prevede lo statuto. Linea seguita anche da altri, come la barese E-care e la toscana Call&Call. Risultato: il costo del lavoro è maggiore e negli ultimi anni gli appalti sono diminuiti. È così, ad esempio, che Almaviva ha perso la gestione dei servizi 060606 e 020202, rispettivamente l’infopoint dei comuni di Roma e Milano. Adesso, dopo la decisione della Wind di lasciarle la commessa in Sicilia e Lombardia , gli oltre 2 mila operatori a rischio licenziamento possono tirare un sospiro di sollievo. «Ma non conosciamo ancora quali saranno le nuove condizioni e il nostro timore è che possano esserci ricadute su di noi» frena Massimiliano Fiduccia, della rsu di Palermo.

Del resto scaricare i costi sull’ultima rotella dell’ingranaggio non è una novità. Per non perdere il posto tre mesi fa i 261 dipendenti della società Accenture hanno dovuto rinunciare agli integrativi aziendali. Mentre ai 1.500 della Infocontact è stata prospettata come condizione per essere assunti dai nuovi acquirenti la riduzione dell'orario: per i full time da 40 a 30 ore settimanali e per i part time da 30 a 20. Tradotto: circa 200-300 euro al mese in meno, il 25-30 per cento dello stipendio.

L’assurdità è che, per come è stato concepito il sistema, gli incentivi non solo non hanno creato posti di lavoro ma hanno unicamente accentuato la concorrenze sleale, perché potendo abbattere il costo del lavoro molte aziende “mordi e fuggi” riescono a fare incetta di commesse penalizzando le concorrenti. E così lo Stato alla fine paga due volte. Prima per le agevolazioni, in termini di minori introiti fiscali. Poi - quando terminano, gli imprenditori chiudono baracca e magari si trasferiscono all’estero - per gli ammortizzatori sociali. Proprio come accaduto col colosso Phonemedia.

DELOCAL
Se Paolo Virzì volesse girare il sequel di “Tutta la vita davanti”, dedicato proprio al mondo dei call center, oggi come location più che Roma dovrebbe scegliere Tirana . È qui infatti che imprese come il calabrese gruppo Abramo o la multinazionale Teleperformance hanno trovato il loro paradiso: costo del lavoro irrilevante (solitamente 200 euro al mese per un part time), contratti per lo più trimestrali, flat tax al 15 per cento e soprattutto - come ha rivendicato con orgoglio il premier Edi Rama nel corso della recente visita di Renzi - niente sindacati. Un mix che fra la capitale, Valona, Durazzo e Scutari consente a migliaia di ragazzi cresciuti a pane e tv italiana di mettere a frutto la lingua imparata da bambini. Il Paese delle aquile ormai ha un rilievo tale che il mese scorso il Garante della privacy ha firmato un accordo con l’omologo albanese Besnik Dervishi per tutelare il trattamento dati degli utenti italiani. Intesa che se da un lato punta alla difesa della privacy, secondo la Fistel-Cisl incentiverà ulteriormente la delocalizzazione.

Ma a fare faville non è solo Tirana. Fuori dalla Ue attualmente hanno call center almeno 36 società (quelle che lo hanno comunicato, da norma, al Garante). Mentre il “distretto della cuffia”, che a lungo ha furoreggiato nel nostro Mezzogiorno grazie ai generosi incentivi della legge 407 oggi ha traslocato per lo più all’Est. Bulgaria, Romania (dove opera la torinese Comdata), Polonia e, da ultimo, Croazia e Tunisia (Paesi in cui primeggia la multinazionale Transcom). Secondo le stime dell’associazione di categoria Assocontact, all’estero si è già trasferito il 10-15 per cento del mercato. Che impiega, calcolano i sindacati, almeno 15 mila lavoratori.

OPERATORE LOW COST
A volerlo, uno strumento per frenare questa situazione ci sarebbe: prevedere un vincolo territoriale nelle commesse. Appalto vinto in Italia, servizio svolto completamente in Italia. Oppure pretendere la restituzione degli incentivi da chi va all'estero. Solo che in tempi di magra la prima a non avere interesse è proprio la pubblica amministrazione. E così fioccano gli appalti al massimo ribasso. O comunque le gare al massimo risparmio possibile. Come accaduto a Milano, dove i sindacati hanno accusato il comune di non garantire nemmeno il minimo salariale agli operatori dell’infoline.

Come deterrente basterebbe prevedere la continuità lavorativa nei cambi d'appalto, come ad esempio già accade per le imprese di pulizie: le aziende si avvicendano, i dipendenti no. Tanto più che ce lo chiede anche l’Unione europea. La direttiva l'ha recepita perfino la “maglia nera” Grecia, noi invece dal 2001 ancora non abbiamo trovato il tempo di applicarla.

“Il sistema degli appalti e il mercato del lavoro”. A Catania Cesare Damiano


Comunicato stampa
Catania, 13 marzo 2015 – “Cambiare il sistema degli appalti”. E’ questa la parola d’ordine del presidente della Commissione Lavoro alla Camera, il democratico Cesare Damiano, ribadita anche ieri a Catania davanti a una platea di lavoratori di call center, agenzie di recapito, operai edili e vigilantes, vittime di un sistema di aggiudicazione delle gare di appalto che, basato sul ‘massimo ribasso’ mette all’angolo la manodopera con paghe da fame e nessuna garanzia.
“In questo modo si raggirano leggi – ha sottolineato l’ex ministro al Lavoro– tanto nel privato quanto nel pubblico, fissando dei prezzi talmente esigui da non poter applicare i contratti, producendo lavoro nero e delocalizzazioni”. Era partita proprio dal presidente Damiano l’ indagine conoscitiva sul mondo dei call center, su cui la deputata democratica catanese Luisa Albanella, componente della Commissione, è chiamata a relazionare il prossimo 31 marzo a Montecitorio.
“Bisogna introdurre il sistema dell’offerta più economicamente vantaggiosa – ha spiegato Albanella – e bisogna vigilare perché dall’offerta resti scorporato il costo dei lavoratori. Servono regole anche per i subappalti e vincoli nella pubblica amministrazione, leggi che obblighino le aziende subentranti ad assumere i lavoratori che avevano prestato attività nelle ditte precedenti”.
Tanti gli interventi, del segretario dl circolo PD Comunicazione e Trasporti Giuseppe Rocca che ha organizzato e voluto l’incontro assieme alla parlamentare Albanella, il quale ha lanciato una petizione per una legge di iniziativa popolare. Un accorato appello è arrivato dal vice segretario Pd Catania Jacopo Torrisi, perché si introducano norme che ridiano dignità al lavoratore. Una realtà ancora più drammatica a Catania, “dove –ha commentato un operaio – nei prossimi anni sono previsti solo due grossi appalti” e dove “la precarietà è stabile” ha aggiunto Natale Falà, operatore di call center.
Un nuovo allarme è arrivato poi dagli edili per il calcolo pensionistico che dal 1 gennaio 2016 non terrebbe conto, per chi ha percepito un assegno di disoccupazione, dell’ultima paga percepita bensì dell’ultima indennità.
“Dal governo nazionale ci aspettiamo maggiore attenzione – ha detto la deputata regionale Concetta Raia che ha moderato il dibattito– ci sono migliaia di giovani professionalizzati e scolarizzati che purtroppo lasciano la nostra terra, con un danno economico e sociale enorme”.



Terranera. La Sicilia degli invisibili

www.huffingtonpost.it
Sicilia, terra del sole. Ma anche terra delle ombre e dell'invisibilità: terra nerra.
Nera come l'espressione del volto dei lavoratori a cui sembra che sia stato tolto tutto e nera come l'attività svolta. Nera è anche l'ambientazione del docu-film che non poteva trovare espressione migliore nel titolo Terranera realizzato dai registi Riccardo Napoli e Massimo Malerba in collaborazione con la Cgil e la Flai di Catania, proiettato nella città etnea in un gremito Teatro San Giorgi. Una inchiesta e una denuncia da brividi. Neri, pure quelli.
Un terra sfruttata e di gente sfruttata. Gente dal cuore nero ormai, come neri sono diventati i pensieri di fronte alle immagini di quella che potremmo definire una guerra fra poveri. Perchè se è vero che lo sfruttamento c'è e c'è sempre stato, e probabilmente ci sarà sempre in questo mondo di ineguaglianza, quello che merita considerazione è il parere degli autoctoni della campagne dell'hinterland catanese e degli stranieri che fanno emergere, appunto, non solo il problema e il dramma dello sfruttamento del lavoro ma un vero e proprio scontro fra civiltà povere e disperate, intorno "a una totale assenza delle istituzioni" come ha sottolineato il segretario generale della Camera del lavoro di Catania Giacomo Rota.
Alla domanda dei sindacalisti rivolta a dei lavoratori del comune di Paternò su quale fosse la retribuzione del lavoro nelle campagne la risposta è stata "Quanto mi pagano? Meno dei rumeni. Loro se la fanno la spesa noi no". Aggiugnendo che le loro buste della spesa sono sempre più piene delle sue. Motivo? "Loro lavorano in nero e guadagnano". Ancor prima che sorga il sole, nella piazza davanti a un bar e ai primi caffè, secondo qualcuno la prova del lavoro nero sta nel fatto che alle domande dei sindacalisti questi, al contrario degli abitanti del luogo, scappano.
E se prima, proseguono altri, la paga era di 50 euro al giorno adesso si viene pagati a cassetta. Ogni cassetta 5 euro. Ancora il sole non è sorto ma già c'è chi si prepara a salire sui furgoni. Su ogni furgone di solito viaggiano verso le campagne circa 15 persone. Fra questi anche bambini in età scolastica. Nessuno escluso. E si paga circa 5-10 secondo quanto dichiarato da un testimone. Ma vediamo il guadagno effettivo. Alla luce di quanto esposto da Pino Mandrà, uno dei "sindacalisti di strada" che ha partecipato alla realizzazione del docu-film, la paga è di circa 30 euro (in alcuni casi anche 25) per dodici ore di lavoro. Da queste 30 euro va decurtato il 50% che va al caporale. Questo vuol dire che si lavora per 5-10 euro al giorno, visto che le miserabili spese di trasporto non sono incluse.
Una realtà nera e invisibile, come dichiarato dal regista Riccardo Napoli "Mi sono confrontato con una realtà che altrimenti sarebbe stata invisibile. Abbiamo filmato qualcosa che, poi appunto, alla luce del sole era invisibile". E Terranera, nella parole di Alfio Mannino è nato proprio per far luce, per accendere i riflettori su realtà in cui, domina l'anarchia e una sorta di scontro fra civiltà.
Rassegnazione e dignità, rabbia e impotenza. Sono le emozioni e le sensazioni di chi ha osservato, di chi vive in delle dimore di fortuna, nella sporcizia più totale. Sono state rappresentate crude immagine di disumanità, non degne certamente di un paese che sta ripartendo, di dice. Ma tutto ciò per un pezzo di pane.
Se per Cesare Damiano, presente all'incontro, è importante la forza della cultura dell'inchiesta dovrebbe essere altrettanto importante che si declinasse la cultura delle trite parole. Di fronte a certe immagini non possono esserci parole o commenti. Del resto le leggi esistono, pensiamo al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro introdotto nel codice penale nel 2011. Trovata la legge, allora, dove sta l'inganno?
Inchieste come queste, seppur importanti, come sottolineato da Damiano restano dei documenti fini a se stessi o a risvegliare a giorni alterni le coscienze se poi concretamente non si fa nulla per cambiare. Inchieste come queste avranno peso non solo quando scalfiranno le coscienze ma quando con la stessa forza e la stessa rabbia potranno contribuire al risveglio, a stimolare un lavoro sinergico fra mondo politico, istituzionale, del lavoro. Soprattutto dopo aver "travalicato quella linea rossa che nessuno voleva vedere" per dirla con le parole di Rota.
L'auspicio, oltre alla sinergia e alla volontà di intenti da parte di tutti, è che il sindacato in questo territorio non sia solo sindacato di strada ma soprattutto "per" la strada e "per" chi versa in questo disagio disumano.
Se è vero che "la Sicilia è la chiave di tutto" (Goethe) si riparta dagli ultimi. Si riparta dalla terranera.

NOTA DI REDAZIONE:
Nella foto Alfio Mannino, classe 1972, dal 2007 componente della segreteria provinciale, è il Segretario Generale della FLAI CGIL di Catania. L’elezione è avvenuta nella riunione del Comitato Direttivo della Federazione Lavoratori dell’Agro Industria etnea, del 26 luglio 2010, svoltasi nel salone della Cgil “Sebastiano Russo“ di via Crociferi.
Laureato in giurisprudenza, sin da giovane si è distinto per un forte impegno nel sociale. Dall’ottobre del 2004 è coordinatore della Camera del Lavoro di Randazzo. Nel giugno del 2007 entra nella segreteria provinciale FLAI; si è occupato del settore agricolo e delle relative politiche contrattuali, delle politiche forestali e dell’ambiente e dello sviluppo rurale.


05 marzo 2015

Call Center: Azzola (Slc Cgil) sconcertanti le dichiarazioni del Ministro Guidi.


Dichiarazione di Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil
Mentre il settore è attraversato da migliaia di licenziamenti, da vertenze che incidono pesantemente sulle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori e da una crisi le cui origini sono da ricercarsi nel caos normativo introdotto dal Governo, sconcerta leggere le dichiarazioni rilasciate dal ministro Guidi in risposta a un’interrogazione in merito all’operato del Governo.
Da un lato il ministro continua a ripetere che si è intervenuti per far rispettare una legge del 2012 che garantisce la sicurezza dei dati dei cittadini e rende più complicate le delocalizzazioni all’estero, omettendo che ad oggi nessun intervento sui committenti è stato realizzato e che la legge risulta ancora totalmente disattesa.
Il Ministro dichiara, inoltre, che è attivo un Gruppo Tecnico di Lavoro per ricercare soluzioni ai problemi del settore, che ricordiamo dipendere dal caos normativo e dagli interventi sbagliati sino ad ora adottati, omettendo di dire che quel Gruppo Tecnico di Lavoro non si è mai riunito. Cita inoltre alcune soluzioni su gare pubbliche e incentivi, che rischierebbero di aggravare ulteriormente la situazione in quanto del tutto inadeguate e inefficaci a risolvere le crisi in atto.
Infine, chiosa sulle crisi in corso ostentando una tranquillità incomprensibile mentre nella realtà ai 1500 lavoratori calabresi di Infocontact si chiede di dimezzarsi le retribuzioni passando da 1000 a 500 euro al mese, non perché non ci siano i volumi ma perché gli incentivi introdotti dal Governo rendono più conveniente spostare quel lavoro su altri siti. Su Almaviva dichiara considerazioni banali omettendo di dire che l’azienda è fuori mercato perché gli incentivi e le regole introdotte dal Governo consentono ad un nuovo operatore di offrire importi ai committenti inferiori sino al 40% rispetto al costo sostenuto da Almaviva. Tutto questo mentre sono aperte crisi occupazionali che riguardano oltre 5000 persone che stanno perdendo il posto di lavoro a causa dei meccanismi di sostituzione dell’occupazione causati dalle norme di Legge.
In questo modo, le assunzioni che saranno conteggiate per sostenere le ragioni di chi ha voluto il Job Act, in realtà non saranno nuova occupazione ma sostituzione di lavoratori messi fuori mercato dal Governo e per i quali la collettività pagherà due volte: una prima per gli incentivi introdotti e una seconda per gli ammortizzatori sociali di chi perderà il lavoro.
Ci chiediamo che cosa abbiano fatto di male questi lavoratori. Giovani di questo Paese che dopo aver finito gli studi (nei call center c’è una altissima presenza di personale laureato e diplomato) non si sono arresi di fronte al fatto che l’Italia non era in grado di offrire loro un’occupazione in linea con attese e preparazione, non sono fuggiti all’estero, non hanno cercato scorciatoie ma si sono rimboccati le maniche ed hanno accettato di lavorare in un call center con dignità e professionalità.
Perché così poca considerazione per una generazione, oggi l’età media si attesta sui 37 anni, che ha già pagato un prezzo durissimo alla crisi del Paese? Perché così poca attenzione per i cittadini, che a causa delle scelte del Governo ricevono servizi qualitativi bassissimi da parte dei servizi di customer care? Come mai tanta indifferenza rispetto al fatto che la crisi dei call center è una peculiarità italiana che non ha nessun riscontro negli altri Paesi europei, Spagna e Grecia inclusi?
Forse sarebbe ora che il Ministro Guidi e tutto il Governo smettessero di giocare la parte di chi vuol cambiare in meglio l’Italia contro le resistenze di gufi e conservatori e provassero con umiltà ad ascoltare le ragioni di chi paga prezzi altissimi in termini sociali e economici.
Un’umiltà dovuta nei confronti di chi si alza tutte le mattine, entra in un call center e con una cuffia in testa prova ad aiutare i cittadini italiani; accettando un lavoro e una retribuzione lontanissime dalle aspettative maturate mentre studiava per laurearsi e che oggi rischia di perdere tutto per inconsapevolezza di chi dovrebbe tutelarli.
Infine, il Parlamento non dovrebbe accettare di essere un luogo in cui si possa raccontare “verità” distorte solo per recitare un ruolo senza mai provare a interrogarsi sui danni che tale operato produce.

Roma, 5 Marzo 2015

INFOCONTACT


Dichiarazione stampa di Riccardo Saccone
Slc Cgil, azienda chiede dimezzamento di stipendio.
Cosa dicono Enel, Poste e Wind?
“E’ proseguita  la trattativa per la vendita dei rami d’azienda delle sedi di Lamezia e Rende della Infocontact. Purtroppo occorre registrare la chiusura delle aziende interessate ad acquisire i “rami” a muoversi da una posizione che non possiamo che definire capestro: l’unica soluzione, secondo l’azienda, per garantire la maggiore continuità occupazionale sarebbe l’abbattimento delle ore lavorate da parte dei lavoratori.” Così una nota ufficiale di Slc Cgil nazionale.
“Una soluzione non percorribile sia sotto il profilo giuridico (la deroga prevista dall’Art. 47 non consente di tagliare il profilo orario contrattuale dei singoli) che su quello sindacale – prosegue la nota. Tutelare l’occupazione non significa offrire briciole a più gente possibile, sapendo sin da ora che i volumi futuri consentiranno nuove assunzioni (come dichiarato al tavolo dalle aziende interessate). Queste posizioni sono evidentemente strumentali ed irrispettose.”
“Siamo purtroppo alle solite: in Italia l’occupazione ormai sembra possa essere tutelata solo contraendo diritti e salario. I committenti continuano ad abbassare le tariffe? Si decurti il salario dei lavoratori degli appalti! Un’azienda fallisce per colpe non ascrivibili ai lavoratori? Se quegli stessi lavoratori vogliono ancora un lavoro si dimezzino le ore lavorate, e quindi il salario (e se fanno i bravi gli verrà fatto fare un po’ di supplementare). In tutto questo il silenzio dei committenti è assordante.”
“Enel e Poste, aziende in orbita pubblica, e Wind cosa pensano di questo? – chiede il sindacato. Ed i Ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico? Il sindacato da mesi sta denunciando l’insostenibilità della situazione dei call center. Anche da questa vicenda appare abbastanza chiara la risposta che si intende dare: salari di mera sussistenza, lavoratori ricattabili per raggiungere salari che si discostino dalla soglia di povertà di poche decine di euro. Ma che razza di Paese sta diventando questo? Quanto si pensa di poter ancora comprimere i diritti ed i bisogni elementari?”
“Ora questa vertenza si sposta nel territorio – conclude il comunicato. Questo silenzio assordante dei committenti e delle Istituzioni vedremo quanto durerà di fronte alla rabbia di persone che, per continuare ad avere la dignità di un salario, dovranno accettare di sprofondare nella soglia di povertà.”

Donne: stessi diritti, identiche opportunità.

Una delle donne più potenti al mondo, Christine Lagarde, alla guida del Fondo monetario internazionale, parlando delle diseguaglianze economiche, ma non solo, tra uomini e donne ha recentemente affermato che "c'è una cospirazione contro le donne". Poco prima un'altra donna, Patricia Arquette, ha pronunciato nella notte degli Oscar un vero e proprio discorso politico, in difesa di tutte le donne: "A ogni donna che ha partorito un figlio, a ogni mamma-contribuente, e cittadina: abbiamo lottato per la parità di diritti di tutti gli altri. Ora tocca a noi. È ora di ottenere la parità dei salari una volta per tutte, per le donne americane".

Questi due recenti fatti di cronaca, hanno acceso i riflettori su una delle maggiori storture con le quali la nostra categoria si misura da tempo attraverso l’esercizio della contrattazione di genere. Sebbene sia ormai patrimonio comune il fatto che il 15 per cento del Pil potenziale non viene realizzato in Italia, a causa delle discriminazioni contro le donne, nessuna misura è stata messa in campo per correggere strutturalmente questa tendenza.

Basta guardare con un’ottica di genere gli effetti che il Jobs Act avrà sull’occupazione femminile per comprendere come sia diametralmente opposta la direzione intrapresa da questo governo rispetto alle necessità di costruire politiche di pari opportunità in un contesto in cui la crisi ha ampliato il gap esistente tra occupazione femminile e maschile, in termini di opportunità e di salario.

Se a questo aggiungiamo l’assenza di misure strutturali in grado di costruire politiche di welfare, che supportino concretamente la conciliazione e le condizioni di accesso alla pensione (particolarmente gravose, perché non guardano alla reale condizione di milioni di donne che sempre più difficilmente troveranno un’occupazione stabile durante la loro vita lavorativa), comprendiamo quanto complesso sia il quadro in cui il sindacato si trova ad affrontare questi problemi.

Per questo motivo il nostro ruolo diventa oggi ancora più determinante per colmare il gap salariale tra uomini e donne, per promuovere l’occupazione femminile e le opportunità di crescita professionale delle donne. Per farlo, è necessario partire dall’analisi di cosa stia accadendo nel mondo del lavoro e dalla comprensione di come la destrutturazione dei processi lavorativi e del diritto del lavoro si colleghi con le discriminazioni.

La nostra categoria rappresenta settori in cui la presenza delle donne è particolarmente accentuata, il che ci ha consentito (e ci consente) costantemente di misurarci con il tema della contrattazione di genere e di provare a sperimentare soluzioni che provino a correggere o quantomeno a contenere i fenomeni discriminatori. È oormai noto il “caso Poste” di un paio di anni fa, quando lottammo per far rivedere un accordo sul Pdr (premio di risultato) firmato da altre 4 organizzazioni sindacali, che escludeva dal bonus presenza le lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità, perché “colpevoli” di essere assenti per il periodo previsto dalla legge.

Quella battaglia fu vinta, e a essa continuano ad aggiungersene altre, cogliendo una nuova sfida, che è quella di spostare l’attenzione verso quel mondo dai contorni indefiniti in cui operano le lavoratrici atipiche o quelle “genuinamente autonome”. Abbiamo cominciato a fare proprio questo analizzando i dati della ricerca “L’editoria invisibile”, condotta dalla Slc per conoscere più a fondo la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori del settore editoriale, composto per il 73,9% da donne (su un campione di oltre 1.000 lavoratori intervistati), insieme ai quali abbiamo cominciato a costruire politiche rivendicative per far accedere queste lavoratrici e questi lavoratori, fino a oggi esclusi, agli istituti di welfare contrattuale (sanità e previdenza integrativa).

Se guardiamo agli aspetti retributivi, le lavoratrici di questo settore sono doppiamente penalizzate, perché a una “precarietà esistenziale”, data dalle caratteristiche del lavoro svolto, che difficilmente prevede la subordinazione, sommano un gap in termini di retribuzione particolarmente pesante: 6 lavoratrici su 10 (il 58,7%) percepiscono una retribuzione lorda annuale inferiore ai 15mila euro a fronte del 46,3% dei maschi nella medesima condizione (vi sono, dunque, più di 12 punti percentuali di differenza, a svantaggio della componente femminile).

Per far fronte a questo tipo di discriminazione, abbiamo inserito nel ccnl grafici editoriali una specifica clausola che vincola le parti all’avvio di un confronto per la definizione dei minimi contrattuali per le lavoratrici e i lavoratori del settore, raggiungendo un primo obiettivo che è quello di garantire condizioni di partenza uguali per tutti, coerenti con quelle relative alle lavoratrici e ai lavoratori subordinati.

Infine, come categoria stiamo provando ad avviare un ragionamento più avanzato riguardo alle tematiche della salute, ritenendo che esiste anche un altro tipo di discriminazione, che va combattuta, e che riguarda l’assenza di attenzione su patologie “di genere”, che – oltre a rappresentare un problema a livello fisico – spesso determinano, in quanto non riconosciute, l’arresto delle progressioni di carriera, se non addirittura la perdita o l’abbandono del lavoro.

Una donna su 10 è affetta da endometriosi, una patologia che nelle forme più gravi diventa invalidante, rispetto alla quale non c’è adeguata informazione. È evidente, quindi, che senza il “riconoscimento” di questa condizione, già – per fare un esempio – le assenze delle lavoratrici che ne sono colpite finiscono per essere penalizzanti. Non solo. In assenza della possibilità di “codificare” questa malattia, anche il ruolo della contrattazione (in questo caso di secondo livello) diventa più complicato. Su questo tema il 31 marzo organizzeremo un’iniziativa pubblica, insieme alla Cgil, per chiedere anche in questo caso stessi diritti e stesse opportunità, perché se è vero che 'la disuguaglianza non paga', pensiamo sia arrivato il momento di chiederne il conto.

Di Barbara Apuzzo Segretaria nazionale Slc Cgil