17 gennaio 2017

DONNA INCINTA NEL MONDO DEL LAVORO

Avvocato Francesca Paola Quartararo:

In Italia quasi due terzi dei lavoratori inattivi sono donne. A fine settembre scorso risultavano infatti inattive circa 9,2 milioni di donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni (più o meno la popolazione del Portogallo) e pari al 64,7% del totale di italiani inattivi. E’ il dato che emerge da un rapporto sull’universo femminile in Italia realizzato dal Servizio studi di Bnl, guidato dall’economista Giovanni Ajassa.

Quali sono le norme a tutela della maternità?

La tutela della maternità ha il proprio fondamento giuridico nella Costituzione (artt. 3 e 37), nella Legge 30 dicembre 1971, n. 1204 e nel relativo regolamento di attuazione D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, questi ultimi poi riuniti nel Testo Unico approvato con D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151. La tutela che il nostro ordinamento accorda alla lavoratrice madre è frutto di una lunga evoluzione normativa che è sempre stata caratterizzata dalla finalità protezionistica sancita dalla Costituzione, in particolare all’art. 37. A partire da tale norma, la tutela della lavoratrici madri è stata in principio attuata con l’emanazione della Legge 1204/1971, integrata successivamente dalla Legge n. 903 del 1977 e dalla Legge 53/2000. La materia in esame, poi, è stata ridisegnata in una logica paritaria dal D.Lgs. 151/2001, contenente il T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, modificato e integrato con il D.Lgs. 115/2003. Il Testo Unico, in particolare, ha raccolto e riordinato il complesso delle disposizioni vigenti in materia, nonché alcune norme della Legge n. 903 del 1977 in tema di parità di trattamento tra uomo e donna. Successivamente, la normativa a protezione delle lavoratrici madri è stata oggetto di ulteriori modifiche a seguito dell’introduzione, dapprima, della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (cd. riforma Fornero), e, più di recente, dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act (legge delega n. 183 del 2014).

Quale tutela viene riconosciuta alle madri lavoratrici? Le novità.

Attraverso tale evoluzione, a oggi, la legge tutela la lavoratrice madre nelle diverse fasi della gravidanza e dei primi anni di vita del bambino. In primo luogo, la salute della lavoratrice è tutelata vietando che la stessa venga adibita, dall’inizio della gravidanza e fino al settimo mese di età del figlio, a lavori ritenuti pericolosi, e, fino al primo anno di età del bambino, a lavori notturni (dalle 24 alle 6).  La legge prevede poi la possibilità per la madre lavoratrice (o per il padre, in casi specifici) di astenersi dall’attività lavorativa in determinati periodi della gravidanza e dei primi mesi di vita del figlio. In particolare, il congedo di maternità prevede l’obbligo di astensione dal lavoro per la lavoratrice da due mesi prima la data presunta del parto, sino a tre mesi dopo  con diritto all’80% della retribuzione. Tale diritto spetta anche la lavoratore padre “congedo di paternità” a determinate condizioni previste dalla legge. Esso è stato di recente ampliato, in via sperimentale, per effetto della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro e della legge 208/2015.

La riforma del 2012 ha poi previsto che, al termine del periodo di congedo di maternità, la lavoratrice madre possa sostituire il congedo parentale con un voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati, per un massimo di sei mesi. Tale beneficio, introdotto in via sperimentale dalla legge 92/2012, è stato prorogato per l’anno 2016 dalla legge 208/2015.  Ai lavoratori genitori è altresì riconosciuta la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time), con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50% (novità introdotta dal d.lgs. 81/2015). Nel corso della vita del figlio, i genitori lavoratori hanno poi diritto a riposi retribuiti e congedi non retribuiti per le malattie del figlio. La legge, infine, garantisce la conservazione del posto di lavoro per la lavoratrice madre, o il lavoratore padre che abbia usufruito di congedi, attraverso il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del figlio, l’obbligo di convalida da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro delle dimissioni presentate durante i primi tre anni di vita del bambino, nonché il diritto a conservare il proprio posto di lavoro e a rientrare nella stessa unità produttiva cui era adibita precedentemente, con le stesse mansioni.

Il datore di lavoro può licenziare una donna incinta?

Il divieto di licenziamento è previsto dall’art. 54 del Testo Unico sulla maternità e si sostanzia nella dichiarazione di illegittimità del recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo cosiddetto di tutela, ossia dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno d’età del bambino. Il divieto di licenziamento opera anche nel caso in cui il datore di lavoro, al momento del licenziamento, non conosceva lo stato di gravidanza della lavoratrice. Infatti in virtù del certificato medico che attesta lo stato di gravidanza alla data del licenziamento la lavoratrice ha diritto al ripristino del rapporto di lavoro.

A tal proposito, si è pronunciata la Corte di Cassazione, ha statuiti che “il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza, anche nel caso di incosapevolezza del dal datore di lavoro – non avendo questi ricevuto un certificato medico attestante la situazione personale del dipendente – costituisce un recesso “contra legem” (Cass. n.  5749/2008).

Il datore di lavoro può tuttavia procedere al licenziamento quando ricorrono le seguenti circostanze:

qualora il licenziamento sia stato determinato dalcomportamento della lavoratrice tale da non consentire l’ulteriore prosecuzione, anche in via provvisoria, del rapporto di lavoro. In pratica la donna si deve essere macchiata di una colpa grave. Può trattarsi di gravi negligenze nel lavoro, divulgazione di notizie confidenziali o l’aver diffuso fatti o accuse tali da ledere la reputazione del datore di lavoro. Ovviamente non possono costituire giusta causa di licenziamento né la gravidanza né fatti a questa legati.
l’azienda ha cessato ogni attività a cui la lavoratrice era addetta;
ultimazione delle prestazioni per le quali la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine. È il caso in cui la lavoratrice sia stata assunta con uncontratto a tempo determinato o per una singola prestazione portata a termine.
Per lo stesso periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può neppure essere sospesa dal lavoro, a meno che lo stesso provvedimento non riguardi l’intera azienda o il reparto. Per poter godere dei benefici garantiti dalla legge, la lavoratrice deve far pervenire al suo datore di lavoro un certificato di gravidanza che, tra gli altri, deve riportare il mese di gestazione e la data presunta del parto. Se la lavoratrice viene illecitamente licenziata, ha diritto ad essere reintegrata nel proprio posto. A questo scopo, entro novanta giorni dal suo allontanamento dal lavoro deve presentare un certificato dal quale risulti che al momento del licenziamento la gravidanza era già in corso.

Cosa succede se, nonostante l’esistenza del divieto, il licenziamento viene comunque intimato?

 Il comma 5 dell’art. 54 del d.lgs 151 del 2001 stabilisce che il licenziamento intimato nel periodo in cui vige il divieto deve considerarsi nullo.

Questo comporta delle importanti conseguenze di ordine pratico: oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, qualunque siano le dimensioni dell’impresa, alla lavoratrice licenziata spettano per intero tutte le retribuzioni maturate in forza del rapporto di lavoro che, per la legge, di fatto non si è mai interrotto. La parte datoriale, inoltre, sarà condannata a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal momento del recesso.

Il licenziamento della lavoratrice in gravidanza in quale professione è consentito?

Nel lavoro domestico il licenziamento della lavoratrice in gravidanza non è illegittimo, né nullo né discriminatorio. La Cassazione ha affermato che rispetto alle altre donne, per le lavoratrici addette ai servizi domestici (Colf e Badanti) non vige il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di vita del bambino.

Quali sono i diritti delle baby sitter, colf e badanti rimaste incinte?

l licenziamento della lavoratrice in gravidanza è consentito nel lavoro domestico. La Cassazione con la Sentenza del 2 settembre 2015, n. 17433, ha dichiarato che le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari possono essere licenziate durante la gravidanza. Più precisamente non è illegittimo per legge il licenziamento avvenuto dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno d’età del bambino, se si tratta di una lavoratrice nel settore domestico. E ciò significa che il recesso da parte del datore di lavoro non è qualificabile come illecito o licenziamento discriminatorio, ma può essere validamente esecutivo. Inoltre, nella sentenza la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che in base all’ex art. 62, comma 1, del Decreto Legislativo n. 151/2001 (Testo unico sulla maternità e paternità), alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari si applicano le norme relative al congedo per maternità e le disposizioni di cui agli articoli 6, 16, 17, 22 del Decreto stesso. Il lavoro domestico è invece escluso dalla normativa sul divieto di licenziamento della lavoratrice madre  prevista, invece, dall’art. 54 del Testo unico sulla maternità e paternità.

Se hai qualche dubbio o perplessità sulla questione, l’Avvocato Francesca Paola Quartararo, sarà pronta a risponderVi,  scriveteci nella sezione contatti del sito web: www.avvocatoquartararo.eu

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