26 novembre 2013

"CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, SEGNALI DENTRO E FUORI LO SCHERMO"

Relazione introduttiva di Barbara Apuzzo

Nel 2012, in Italia, 124 donne sono state uccise da un parente (marito, ex marito, compagno, figlio), nel 63% dei casi a casa propria. Un femminicidio quasi ogni tre giorni, l’eliminazione fisica di una donna. Avviene da anni in Italia.

E dentro questo dato non sono comprese le violenze subite da milioni di donne nel mondo. Donne che vedono la propria vita sconvolta o insidiata da minacce, percosse, molestie, stalking, ricatti, mutilazioni, lesioni permanenti.

I motivi sono i più disparati, persino religiosi, come nel caso dell’infibulazione, fino ad arrivare alla morte, per mano del proprio fidanzato, amante, compagno, o marito per quello che ancora viene definito un “delitto d’amore”, un “raptus”, un “atto di gelosia”, mal celando una gigantesca mistificazione che considera una sfumatura, seppur estrema, dell’amore un atto violento, consumato spesso proprio dove ci si dovrebbe sentire più protette, in famiglia.

Mistificazione che uccide spesso la donna per la seconda volta, raccontandone la storia in maniera distorta, in cui gli assassini vengono descritti come “gelosi”, “innamorati”, e dunque in preda ad un raptus, mentre delle donne viene data una rappresentazione stereotipata, che sottintende sempre una responsabilità delle stesse, quasi se la fossero cercata la morte, per aver tradito, respinto o esasperato l’uomo o, più banalmente, per aver ostentato troppa indipendenza, troppa autonomia, troppa bellezza ….troppo qualcosa.

La domanda però è: troppo rispetto a cosa?

Rispetto all’idea di una donna che deve stare al suo posto.

Ma qual è il posto della donna?

Oggi lo chiediamo a Susanna Camusso, Eleonora Andreatta, Benedetta Tobagi, a Luisa Betti, a Rita Del Prete, a Lunetta Savino, donne impegnate, ognuna per il proprio ruolo, nella costruzione di una società e di una cultura che sappia riconoscere dove si annidano le discriminazioni, dove il sopruso fa il suo ingresso prima che diventi violenza.

E lo chiediamo anche a Gad Lerner, giornalista e uomo di cultura, da qualche mese presidente del comitato editoriale Laeffe, un canale del digitale terrestre che vuole distinguersi per la qualità dei suoi prodotti culturali.

Insieme a loro vogliamo parlare dei luoghi comuni e degli stereotipi, che rappresentano la prima violenza sulle donne, che vengono veicolati quotidianamente e capillarmente, segnali che omologano e diffondono idee e comportamenti discriminatori e sessisti.

Se un uomo uccide allora è per troppo amore, perché disperato per aver perso il lavoro e quindi fragile al punto di compiere un atto folle, salvo poi scoprire che ad esempio, citando il
rapporto Ombra presentato dalla Piattaforma Cedaw a New York nel 2011: «I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.

Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie e meno del 10% è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi».

La violenza nasce infatti in ogni contesto sociale. Anche l’avvocato picchia, sfregia con l’acido o uccide la propria compagna esattamente come l’operaio o il disoccupato.

La violenza maschile contro le donne non è un fenomeno né nuovo né solo italiano.

Secondo quanto riportato dall’Onu 7 donne su 10 subiscono nel mondo violenza nel corso della vita, ma cosa ancor più grave è che 600 milioni di donne vivono in nazioni che non considerano questa violenza un reato.

E’ un’emergenza sociale per tutto il pianeta, motivo per cui organi internazionali come le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa hanno sentito il bisogno di delineare chiaramente sia i termini in cui questa violenza si manifesta, sia le forme di contrasto.

La ratifica nel nostro Paese della Convenzione di Istanbul rappresenta in tal senso un passaggio importante, perché sebbene sia necessario arrivare a 10 ratifiche in altrettanti Paesi europei per renderla vincolante, rappresenta già la più straordinaria piattaforma sugli stereotipi mai scritta, contenente indicazioni su che fare a partire dalla prevenzione.

Una piattaforma che finalmente lancia segnali giusti e nella giusta direzione, che definisce la violenza sulle donne come “violazione dei diritti umani” e come “una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».

Il cambiamento potrà essere reale solo quando si riconoscerà e si ricercherà l’uguaglianza quale elemento chiave per prevenire la violenza.

Sempre la Convenzione dice:
“Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.”
Un ruolo e una responsabilità precisa vengono dunque riconosciuti, per la prima volta con questa chiarezza, al sistema mediatico nel suo insieme. E, aggiungiamo noi, al servizio pubblico in particolare.
Si è responsabili dei segnali che si mandano, si è responsabili delle parole che si usano, si è responsabili delle immagini che si scelgono.
Le donne devono essere rappresentate così come sono realmente, ciascuna con le sue caratteristiche di individuo non riassumibili semplicemente nell’essere madri, mogli, compagne, single, giovani o anziane, più o meno belle, con le rughe o qualche chilo in più.

Donne forti o fragili, impegnate o frivole, dottoresse, direttrici, impiegate, commesse, casalinghe, operaie…donne normali appunto, per correggere quella distorsione che vede in una certa rappresentazione femminile, fatta di vallette e veline pressoché mute o di spot pubblicitari imbarazzanti, un continuo riferimento a ruoli definiti e stereotipati, che sono l’ humus su cui proliferano la discriminazione e la violenza di genere.
I mass media raggiungono tutti. Spesso rappresentano, per chi ha scarse capacità o possibilità relazionali, l’unica finestra sul mondo. Se pensiamo poi a quanto tv e web influenzino la formazione delle coscienze, soprattutto dei più giovani, comprendiamo quanto sia indispensabile inviare segnali che spingano al rispetto e vadano nella direzione dell’affermarsi di un equilibrio di genere, in ogni ambito della nostra vita.
E’ indispensabile chiudere dunque con l’epoca delle donne oggetto, proposte come tali più o meno subdolamente, che insinuano ed alimentano l’idea che anche nel privato, come nello schermo la donna possa essere una “cosa” di cui disporre, una proprietà - inconcepibile dunque che possa immaginare di allontanarsi!
Anche come l’informazione, troppo spesso, racconta la violenza sulle donne, rafforza questa idea.

Se è evidente ormai che il problema della violenza è strutturale, il modo di dare l’informazione e la narrazione mediatica di questa violenza, può rappresentare uno dei fattori principali per il cambiamento.

Nelle ultime settimane, tutti i giornali e i telegiornali, hanno parlato del cosiddetto caso delle “Baby prostitute”.
Baby prostitute, baby escort, ragazze doccia, sono solo alcune delle definizioni usate, parole che si fissano nella mente, che sottintendono e ci abituano all’idea che fin da piccole, queste giovani donne, hanno manifestato forse la loro vera indole.

Ma io mi chiedo, se è normale parlare di “baby squillo”, perché allora non si dice, uso una provocazione forte, “maxi pervertiti” in riferimento agli uomini, spesso padri di famiglia, che con quelle bambine andavano?!
Perché è considerato normale usare una terminologia sessuata per riferirsi a queste ragazzine, poco più che bambine?

E dove sono i padri in questa vicenda?
Sappiamo tutto di queste ragazzine, perché la morbosità del racconto ha vinto su tutto, sono stati intervistati gli amici, i vicini, la madre di spalle, sono state fatte le riprese fuori dalla loro scuola.

Quale privacy è stata rispettata?

E di questi uomini, i clienti, quale familiare è stato intervistato?

Quale collega? Quale ufficio è stato ripreso dall’esterno?
Nessuno. Perché ancora una volta lo stereotipo ha vinto sulla notizia vera: che uomini, evidentemente disturbati, utilizzavano come prostitute delle ragazzine.
Questo è solo un esempio tra tanti, ma serve per dire che se vogliono e devono contribuire al necessario avanzamento culturale del Paese, i mass media, e la Rai in particolare, devono contribuire ad orientare e formare l’opinione pubblica per migliorare e non aggravare l’immagine che si ha delle donne.
Devono lanciare segnali che combattano la discriminazione e la violenza.
La cultura non è una cosa astratta, la cultura siamo e la facciamo noi, ognuno per il suo ruolo.
Per questo abbiamo immaginato l’appuntamento di oggi, per condividere e alimentare l’idea che la cultura è una leva potente per cambiare.
Ma cambiare la cultura, significa prima di tutto cambiare il modo di pensare.

L’obiettivo che ci poniamo è quello di raggiungere l’uguaglianza quale elemento chiave per prevenire la violenza, ma questa uguaglianza allora dobbiamo provare a rappresentarla, con esempi concreti che propongano una idea alternativa a quella cui siamo nocivamente assuefatti.
In questa direzione si è mossa la RAI, con scelte editoriali che abbiamo particolarmente apprezzato.
Scegliere di non riproporre Miss Italia e contemporaneamente dare il via ad una serie di fiction che puntano alla rappresentazione di donne forti, impegnate è un segnale importante.
Mi preme evidenziare che entrambe le iniziative nascono su input di due donne: la Presidente Anna Maria Tarantola e la direttrice di Rai Fiction Eleonora Andreatta.
E lo dico per sottolineare il fatto che la partecipazione delle donne a tutti i livelli rappresenta la precondizione essenziale per determinare il cambiamento culturale della società.
Contemporaneamente, però, devo registrare il fatto che nel testo in discussione del nuovo contratto di servizio 2013 – 2015, in controtendenza con gli impegni assunti dalla Rai, la questione di genere risulta eccessivamente semplificata e diluita con tante altre, il che appiattisce l’impegno del servizio pubblico nei confronti della lotta alla discriminazione e alla violenza di genere dentro più generiche buone intenzioni.
Ecco, forse nell’epoca in cui gli episodi di femminicidio sono presenti nelle cronache nazionali quasi quotidianamente, sarebbe più giusto optare per una “puntualizzazione” più che per una semplificazione, articolando meglio le azioni che la concessionaria del servizio pubblico dovrà adottare, a partire dagli strumenti messi a disposizione per realizzare concretamente quanto enunciato come principi generali.
Noi siamo il sindacato, abbiamo l’obbligo di occuparci della coerenza dei comportamenti, propri e delle controparti nei luoghi di lavoro.
La Rai in questo senso rappresenta per noi un’impresa dentro la quale vivono relazioni di lavoro, relazioni sindacali. Anche al suo interno, così come in tutte le altre aziende, è necessario lavorare insieme per rafforzare quella necessaria inscindibilità tra il “dire” e il “fare” che rimane forse il criterio principale col quale si misurano le nostre rispettive credibilità.

Le donne della CGIL l’anno scorso hanno fatto un lungo percorso che abbiamo chiamato “le donne cambiano...” percorso dentro il quale la Slc si è posta un obiettivo preciso, quello di “chiedere alle istituzioni, alle aziende e agli organi dei giornalisti di intervenire con misure più stringenti e persuasive per il rispetto della dignità della persona –e in particolare della donna- nell'esercizio dell'attività giornalistica, nell'ambito della comunicazione pubblicitaria e nella programmazione televisiva”, perché “se metà del mondo è considerata come corpo, come soggetto possedibile e non come soggetto di cittadinanza” il nostro Paese, ma purtroppo non da solo, ha un gravissimo vuoto di democrazia che non possiamo considerare completamente sanato dalla legge contro il femminicidio recentemente approvata.

La nostra organizzazione ha chiesto, all’indomani della sua approvazione, che si affrontasse il tema della violenza contro le donne in modo più organico e strutturale; dunque con il pieno coinvolgimento di tutti gli attori interessati comprese le parti sociali e il mondo dell'associazionismo civile, prevedendo un'adeguata copertura finanziaria senza la quale si rischia di non mettere in condizione di operare davvero, e con certezza, i centri 
antiviolenza, le case-lavoro, e tutte le strutture che accompagnano le donne a ritrovare la propria autonomia.

Le donne che subiscono violenza, quando rompono quel muro di indifferenza e silenzio, devono avere la certezza di essere adeguatamente protette.

(Nel 2012 più di un milione di donne ha subito atti di violenza, ma solo il 7,2% delle vittime ha denunciato l'accaduto.)

Però dobbiamo dirci con franchezza che affrontare il tema dal punto di vista repressivo, sebbene sia necessario, non è sufficiente.

Per questo motivo, oggi, vogliamo interrogarci su quale è il contributo che noi possiamo dare per fermare questa spirale di violenza lavorando sulla prevenzione.

Nominare un fenomeno è attestare la sua esistenza, è il primo passo verso la consapevolezza che quando parliamo di femminicidio indichiamo una realtà precisa e differente dagli altri fenomeni violenti.

È il primo segnale, il più forte e chiaro, che si fa sul serio nella lotta contro la violenza sulle donne.

“Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale”.

Questa è la definizione che l’enciclopedia Treccani dà della parola femminicidio.

Una parola coniata nel 2006 dalla parlamentare femminista messicana Marcela Lagarde per definire “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotta dalla violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogene”.

Credo che l’uso consapevole delle parole, soprattutto per chi lo fa di mestiere, sia una responsabilità cui non possiamo sottrarci.

Insieme dobbiamo costruire un linguaggio, fatto di immagini e parole, un comune patrimonio semantico, che parli a tutte le donne e a tutti gli uomini, grandi e piccoli, di rispetto e dignità.
Barbara Apuzzo
Segretaria Nazionale Slc CGIL e responsabile coordinamento donne Slc