Potrebbe sembrare, quella di Di Gregorio, una riflessione senza attenuanti verso mariti, compagni o ex partner colpevoli di femminicidio. Del resto, come confermano le cronache recenti, a concedere le «attenuanti» ci pensa già la giustizia, spesso pronta a »soccorrere» i colpevoli – quasi che la vita delle donne valesse meno di quella di altre vittime – accogliendo tesi difensive su presunte o ridotte capacità di intendere e di volere, attenuando l’applicazione delle misure cautelari, scontando «aggravanti» varie. Come nel caso Parolisi, per il quale, è notizia di martedì scorso, i giudici della prima sezione penale della Corte di Cassazione, nelle motivazioni della sentenza che ha ridotto la condanna dell’ex caporalmaggiore facendo cadere l’aggravante della crudeltà, scrivono che il delitto avvenne «in un’esplosione d’ira», e che «la mera reiterazione dei colpi (pur in tal caso consistente) non può essere ritenuta fonte di aggravamento di pena, in un contesto sorretto dal dolo d’impeto». O, è cronaca di meno di una settimana fa, i domiciliari concessi al pensionato di Gioia del Colle che ha ucciso la moglie con un piccone. Il gip, tenuto conto della condotta dell’assassino subito dopo il delitto (ha chiamato i soccorsi) e che, dichiarazioni sue, si sentiva «umiliato e spesso prevaricato dalla moglie», ha affievolito le esigenze cautelari accogliendo la richiesta dei difensori. Mentre, ancora, il pg di Palermo Mirella Agliastro ha chiesto ieri la conferma all’ergastolo per Samuele Caruso, il 25enne che nel 2012 ha accoltellato a morte la 17enne Carmela Petrucci, per il quale gli avvocati della difesa hanno provato a giocare nuovamente la carta dell’infermità mentale. Di femminicidio non si parla ancora abbastanza. Né altrettanto si punisce.
I femminicidi, intesi come uccisione fisica delle donne, avvengono quasi sempre in conseguenza di una separazione e sono messi in atto dal compagno dopo un abbandono da parte della donna. I delitti di genere decretano in maniera assurda e lugubre la fine di un matrimonio. Il marito uccide la moglie anche solo quando conosce il desiderio della moglie di volersi separare, quando si trova davanti alla minaccia di una separazione. Oppure ancora sono commessi in funzione della scoperta dell’uomo di una nuova relazione sentimentale nata durante o dopo la separazione.
Perché succede questo e perché succede spesso in conseguenza di una separazione?
La separazione espone il maschio all’esperienza della mancanza e la donna che si separa, che lascia il suo uomo, è pensata perduta per sempre. La donna, che fin dall’inizio e per tutto il tempo che dura la relazione era stata considerata un oggetto posseduto con forza, o un oggetto d’uso, diventa in un breve attimo, nel momento in cui si separa, una persona reale che gode di autonomia e indipendenza. La scoperta dell’esistenza della donna reale fa riemergere nell’uomo adulto, che si illudeva di essere padrone di sé e del mondo, una condizione infantile di fragilità estrema mai risolta.
Egli è come il bambino che scopre di non essere più il padrone del mondo ma di fare semplicemente parte di un mondo in cui le persone esistono indipendentemente da lui.
L’epifania della scoperta del mondo che esiste fuori dalla propria sfera personale di controllo è vissuto dall’uomo contemporaneo come un’esperienza intollerabile, si potrebbe definire anche una ferita narcisistica, in riferimento a un Io grandioso menomato dalla perdita, oltre che come una forma di offesa virile. Entrambi questi vissuti ci rimandano all’angoscia di castrazione del maschio di freudiana memoria che sembra perseguitare l’uomo fin dalle sue lontane origini.
L’angoscia di castrazione del maschio contemporaneo richiede però una revisione per aggiornarla ai tempi attuali. Essa non consiste più nella paura di poter assomigliare alla donna priva del pene, come sosteneva Freud più di un secolo fa nei suoi scritti (1905, 1914, 1927), ma è piuttosto connessa alla difficoltà dell’uomo di assumere su di sé le componenti femminili dell’identità che sono comunemente attribuite alla donna, come ad esempio il bisogno di attaccamento e l’affettività, il riconoscimento e l’accettazione di una dipendenza. L’uomo si immagina potente solo se considera la donna come un suo possesso personale, di cui può disporre a suo piacimento, un oggetto d’uso che può essere trattato anche crudelmente. Si scopre debole e indifeso quando si accorge, con la perdita, che dipendeva dalla donna, che era una parte di sé indispensabile al completamento di sé, senza la quale fatica a vivere.
La mancanza in una fase iniziale è un’esperienza pensata come una ferita irrimediabile che non si potrà più rimarginare, un vuoto che, una volta riconosciuto, non si riesce più a colmare, e che porta l’uomo a vivere angosce di tipo depressivo, al confronto con l’esperienza del lutto.
Il lutto è la perdita irrimediabile di qualcosa e di qualcuno, che si sa che non si potrà più avere, che non esisterà più del tutto o non esisterà più per noi, vivrà fuori dalla nostra personale sfera d’influenza. Nella maggior parte dei casi l’esperienza del lutto legato alla mancanza e alla perdita della donna, un tempo amata anche se in maniera singolare e discutibile, non è elaborabile da parte dell’uomo autore di violenza perché essa si scontra con un’immagine interiore di un Sé grandioso e onnipotente. Il Sé grandioso è un’immagine che egli si trascina fin dall’infanzia e che non è stato mai messo in discussione in precedenza, anzi è stato con ogni probabilità confermato più volte.
Il Sé maschile potente è stato costruito con l’educazione impartita dalla famiglia affettiva ed è stato in seguito rafforzato dalla società maschilista, che valorizza il maschio e relega la donna in posizione di inferiorità e di sudditanza rispetto all’uomo.
L’immagine di un Sé menomato da una perdita, un Sé ridimensionato e ferito dall’abbandono della donna, di conseguenza non entra quasi mai a far parte della coscienza del maschio violento, è un contenuto non mentalizzabile che viene respinto sul nascere. Al suo posto troviamo l’agito violento che cerca di distruggere l’oggetto d’amore perduto per negarne appunto la sua mancanza. «Sono io che ti elimino dalla vita e non sei tu che mi hai messo ai margini della vita stessa e che, con il tuo continuare ad esistere, confermi la mia insignificanza». Ma l’operazione distruttiva libera l’uomo dall’angoscia solo temporaneamente. La vendetta che si è catastroficamente realizzata non porta a nessuna soluzione. La distruzione dell’altro riduce l’uomo ancora più in povertà e lo spinge spesso verso la propria autodistruzione.