- Barbara Apuzzo Segretaria Nazionale Slc Cgil -
Le donne SLC cambiano…insieme a tutte le altre donne della CGIL, perché insieme siamo in cammino.
Con l’Assemblea di oggi, facciamo infatti non “il primo passo”, ma un ulteriore “pezzetto di strada” in direzione di quanto discusso ed elaborato durante l'Assemblea delle donne della CGIL di Giugno ed i tre Seminari di Dicembre 2012, e lo facciamo portando il contributo della nostra categoria, in cui le esperienze - e le donne - non mancano.
Parlo di un cammino già da tempo intrapreso, perché l’SLC ha già tracciato un percorso, a partire dall’assemblea nazionale delle donne del 2008 e la successiva Conferenza d’Organizzazione, nel corso delle quali sono stati assunti impegni ed orientamenti ben precisi, votati all’unanimità dal nostro CD.
Oggi si tratta di provare a riannodare tutti questi fili, partendo da un assunto che, per noi, donne e sindacaliste, deve rappresentare il punto fermo dell’ azione politica e rivendicativa: “il lavoro produttivo e riproduttivo delle donne crea valore per tutti, motivo per cui, per uscire dalla crisi, l’Italia e l’Europa devono necessariamente investire sul lavoro delle donne”.
Con questa introduzione, a me tocca l’arduo compito di provare a sintetizzare l’enorme lavoro già fatto…non riuscirò ad essere totalmente esaustiva, quantomeno sui temi generali, perché tante sono le elaborazioni, le analisi e le proposte avanzate, che troverete in maniera più completa nelle cartelline distribuite all’ingresso.
Ai temi generali, ascoltando gli interventi che seguiranno, vorremmo provare ad affiancare quelli specifici della nostra categoria, per comprendere i problemi e trovare soluzioni che vedano nella contrattazione, a tutti i livelli, lo strumento indispensabile per avanzare sul terreno del riconoscimento della diversità di genere e l’affermazione dei diritti. A partire da quello al lavoro.
In quest’ultimo periodo, complice il gesto disperato compiuto da un compagno siciliano che insieme al lavoro sentiva di aver perso la dignità e che quindi ha deciso di togliersi dallo “stato di disoccupazione” uccidendosi, il valore della parola lavoro ha riacquistato forza e vigore.
“Fondata sul lavoro”, così sta scritto sulle tessere della CGIL, perché così deve essere.
Il lavoro non dà solo la possibilità di pagare un affitto e di fare la spesa, il lavoro è dignità, identità; è libertà, fisica e psicologica.
Dico questo perché voglio sottolineare quanto pesi la mancanza o l’insufficienza di un lavoro anche sull’insidioso e dilagante fenomeno del femminicidio, che in Italia ha fatto registrare nel 2012 ben 124 uccisioni di donne, molte delle quali ad opera di mariti, fidanzati o conviventi dai quali era difficile affrancarsi, talvolta, per problemi culturali, ma più spesso, forse, per la mancanza di autonomia.
Quante di queste donne erano e quante sono costrette a sopportare umiliazioni e violenze perché prive di una via di fuga?
Immaginare di sfuggire al proprio aguzzino è già difficile per i condizionamenti psicologici subiti, per paura, ma diventa impensabile o addirittura impossibile se non si è materialmente in condizione di sopravvivere.
E allora è anche tenendo a mente questo che dobbiamo continuare a lottare affinchè si creino le condizioni per riportare “il lavoro prima di tutto” e per far si che questo garantisca alle donne condizioni migliori di quelle attuali.
Il lunghissimo periodo di crisi in cui ci troviamo e in cui ci troveremo ancora per un bel po’, rappresenta infatti lo scenario peggiore anche per tante donne occupate, costrette a subire ricatti sessuali, mobbing, vessazioni e discriminazioni pur di mantenere il proprio posto di lavoro, vero e proprio miraggio in un paese privo di prospettive di sviluppo come l’Italia.
Sul tema Elena ha fornito alcuni dati agghiaccianti, partecipando alla 57^ sessione della Commissione sulla condizione delle donne dell’ONU, che si è tenuta a New York nei giorni scorsi.
Approfondendo il tema della “violenza di genere nel mondo del lavoro” ha infatti ricordato che sono 347.000 i casi rilevati in Italia negli ultimi 3 anni. Ma questa cifra coincide con le denunce fatte, il che fa ipotizzare che il fenomeno sia ben più ampio e che ci sia un numero enorme di donne che si sentano costrette a tacere perché convinte di non avere alternative. La crisi ha portato via anche la speranza.
Come potrebbe essere altrimenti in un paese come il nostro, in cui è entrata nel linguaggio comune la parola esodati, per indicare un esercito di persone catapultate fuori dal mercato del lavoro precocemente, precipitate in un limbo in cui, per effetto della riforma Fornero, hanno visto allontanarsi di molti anni l’accesso alla pensione.
Persone che di contro, in un contesto economico e produttivo così disastrato, trovano impensabile ottenere una ricollocazione professionale, complice il fatto che per uno striminzito e asfittico mercato del lavoro risultano invece essere troppo vecchi.
L’attacco alla contrattazione collettiva e al contratto nazionale, ma anche un’idea distorta su come si crea la produttività, stanno dando il colpo di grazia, contribuendo alla svalorizzazione del lavoro; mentre disoccupazione di lunga durata e precarietà rappresentano ormai la quotidianità.
Inutile sottolineare il fatto che, ancora una volta, le donne sono le principali vittime di questo sistema.
Eppure qualsiasi ricerca, qualsiasi approfondimento dimostrano che le donne rappresentano una straordinaria risorsa per rimettere in moto l’economia del paese.
La Banca d'Italia ha quantificato nel 7 per cento l'aumento del Pil se l'occupazione femminile raggiungesse il 60 per cento a fronte dell’attuale 47,2% (58,6% è il dato europeo).
Forti di questa convinzione, noi donne della CGIL, siamo chiamate dunque a ragionare per capire quali azioni si possano e si debbano compiere per agevolare questo percorso.
Quando ho iniziato a fare sindacato, ero molto più giovane ed ingenua, ricordo quanto mi affascinasse l’idea che nel 2010 avremmo raggiunto gli obiettivi di Lisbona, mi dava la sensazione che ci fosse un percorso chiaro, che marciassimo decisi in quella direzione…beh, tre anni dopo il totale fallimento di quegli obiettivi noi ci troviamo in una condizione in cui la disoccupazione giovanile e femminile sfiora il 50 per cento al Sud e viviamo in un paese in cui 800.000 donne lasciano il lavoro per effetto delle dimissioni in bianco.
E allora è evidente che decenni di conquiste legislative, culturali, sindacali sono state via via sgretolate anziché alimentate.
Il tema vero è dunque quello di tenere tutto insieme, costruttivamente e saldamente e contrastare l'emarginazione delle donne dal lavoro, ma anche dal discorso pubblico e dalle classi dirigenti.
In caso contrario, il diritto al lavoro delle donne non potrà pienamente affermarsi.
Questo percorso però, per essere efficace ed esigibile deve andare di pari passo con il cambiamento dell’intero ordine sociale ed economico, che non può avere nell’Italia il suo unico ancoraggio.
E’ infatti alla costruzione di una coscienza europea che bisogna guardare, attraverso politiche e percorsi comuni.
Questa è la nuova cornice di riferimento. Una cornice in cui il cambiamento del Fiscal compact rappresenti la priorità.
“Ce lo chiede l’Europa” è la frase che continuiamo a sentire per giustificare rigore ed austerità.
Ebbene, questa politica è profondamente sbagliata, iniqua e recessiva e fa sì che siano le donne a pagare due volte la crisi. Non è questo il concetto di Europa che abbiamo in mente.
E’ ad un diverso modello d’Europa che dobbiamo guardare, un’ Europa che prima di tutto consideri e valorizzi il concetto di unità nella diversità dei paesi membri, in cui venga rilanciata la discussione sulla Convenzione europea per una vera Costituzione.
Un’Europa in cui possa esistere un Manifesto europeo dei diritti sociali, del lavoro e delle libertà delle donne.
Per fare questo, bisogna innanzitutto coinvolgere la CES, affinchè il tema del diritto al lavoro e alla continuità di reddito delle donne vengano messi al centro dell’azione rivendicativa.
In questa direzione la CES ha già fatto alcuni passi, ma lo iato profondo che ancora registriamo tra buoni propositi e realtà ci impone di dare più slancio alle iniziative da intraprendere, per scongiurare il rischio di subire, come sempre accade nei periodi di crisi, dinamiche in cui il corporativismo, la chiusura e le logiche di difesa portino ad una competizione anche tra i paesi, fatta sul dumping e sul costo del lavoro, il che avrebbe ulteriori effetti devastanti sul genere femminile.
Ma per rivendicare il diritto al lavoro e alla continuità di reddito delle donne è necessario prima di tutto porre un freno ai tagli indiscriminati alla spesa pubblica, portatori delle conseguenze che conosciamo bene in materia di contrazione dei servizi offerti, del welfare e quindi causa di una inevitabile espulsione dal mercato del lavoro di tutte quelle donne costrette a caricare su di sé il peso dell’assenza di reti di supporto sociale.
Se non si parte da lì, infatti, la crescita dell’occupazione femminile continuerà ad essere un miraggio, soprattutto per quelle donne che continuano a sperare di poter mettere su famiglia.
Il capitolo maternità infatti è particolarmente drammatico, soprattutto in Italia, dove il fatto di generare una vita non è considerato una risorsa per il paese, al contrario l’argomento viene trattato come se si trattasse di un problema della gestante, al pari delle smagliature e del fisiologico aumento di peso.
Sarà allora per questo, per un problema estetico, che molte donne occupate, specie se precarie nascondono il pancione?
Noi crediamo invece che la pancia debba essere mostrata con serenità e orgoglio, sempre!
E allora, è indispensabile avviare un percorso che renda finalmente riconosciuto ed esigibile il diritto alla maternità per tutte le lavoratrici, considerando la maternità come diritto di cittadinanza, a carico della fiscalità generale e modulando l'indennità a seconda dell'esistenza del rapporto di lavoro.
Troppe sono ancora infatti le donne che non hanno accesso alla maternità con tutti i diritti previsti dalla legge così come sono assolutamente insufficienti i provvedimenti messi in atto fino ad oggi per affrontare l’argomento.
Fa infatti amaramente sorridere l’ultima trovata del Ministro Fornero: il cosiddetto “bonus bebè”, previsto da un decreto dello scorso dicembre per consentire alle neo-mamme di rientrare al lavoro dopo la nascita dei bimbi.
Prima di tutto per le risorse a disposizione: 20 milioni di euro nei prossimi tre anni, che potrebbero coprire poco più di 11mila richieste, a fronte di 500mila nuovi nati ogni anno.
Inoltre, vista l’esiguità della somma a disposizione, 300 euro al mese, (erogabili per un massimo di sei mesi, nel primo anno di vita del bambino), che dovrebbero servire per coprire parte delle spese dell’asilo nido o per la baby sitter, difficilmente si riuscirà ad arginare il fiume di lavoratrici che lasciano l’occupazione dopo la nascita di un figlio: ben il 27% del totale.
Oltretutto, accettando il bonus, le lavoratrici dovranno rinunciare, per i mesi in cui viene percepito, ad usufruire del periodo di astensione facoltativa.
Non infierisco parlando delle lavoratrici part time, o di quelle iscritte alla gestione separata, per le quali l’erogazione si riduce a briciole.
Insomma, l’ennesimo provvedimento tampone, che mette un cerotto dove è in corso un’emorragia.
Non è di questo (o quanto meno solo di questo) che c’è bisogno!
Non è così (ed è dimostrato) che si incentiva l’occupazione femminile.
L’atavica posizione di svantaggio che hanno le donne va superata con azioni mirate, strutturali, che mettano le donne in condizione di avere le stesse possibilità di partecipare alla vita lavorativa, sociale e politica di un paese, azioni che rendano realmente conciliabile il diritto al lavoro e il diritto ad una famiglia, in primis, ma anche il diritto a veder riconosciute qualità e competenze, dal punto di vista della progressione di carriera e del salario.
(59 sono i giorni che una donna dovrebbe lavorare in più per guadagnare quanto un uomo).
La giornata è fatta di 24h per gli uomini e per le donne, ma a queste ultime non bastano.
In assenza di una lettura di genere, viene infatti chiesto loro di competere su un modello e su una organizzazione del lavoro maschile, che snatura del tutto le caratteristiche femminili, tendenti ad esempio più alla cooperazione che alla competitività, mentre non viene chiesto agli uomini di partecipare adeguatamente alla gestione delle esigenze familiari.
Le donne, nel poco tempo rimanente (perché si sa, gli uomini sono presenzialisti, confondendo spesso la presenza con la sostanza del lavoro svolto e su quel terreno bisogna competere, per scongiurare il rischio di essere messe da parte), devono farsi carico della famiglia, dei figli, magari hanno anche un anziano da accudire.
In ognuna di queste circostanze, però, non ricevono alcun riconoscimento sociale, economico o previdenziale.
Il tutto perché viviamo un fantastico mix fatto di mancanza di cultura e di totale assenza di servizi.
Questo sistema non regge più. Non è più accettabile.
Per questo sosteniamo con forza, che per non continuare ad aggravare la condizione femminile, le cosiddette misure anticrisi devono leggere la realtà e soprattutto le diversità, prevedendo interventi volti a favorire politiche di conciliazione che devono necessariamente agganciarsi ad una diversa idea dell’organizzazione del lavoro, tema rilevante anche per il ruolo che deve avere la contrattazione, in particolare quella di 2° livello.
E allora, per superare la crisi bisogna prima saperla leggere nel suo insieme. Per questo motivo, il tema della presenza delle donne nelle istituzioni, in politica è così importante.
Eppure qualcuno cerca sempre, ancora, di ridurre la discussione sulla necessità delle quote ad un concetto di “occupazione” (che ha il sapore dell’abusivismo) da parte delle donne di spazi fino a ieri prevalentemente - ma sempre “meritatamente” - maschili.
Teresa Mattei, donna eccezionale, protagonista per tutta la sua vita di una lunga ed instancabile battaglia per i diritti delle donne diceva che 'lo sguardo verticale ce l’ha il potere maschile, che dirige le cose, fa tutto quello che vuole, comanda.
Noi non vogliamo comandare, vogliamo stare insieme e decidere delle nostre sorti, decidere della nostra vita e dei nostri figli e di quello che loro potranno fare meglio di noi”.
E’ esattamente così. Non sono le bandierine che ci interessano.
Ci interessa essere portatrici di visioni e valori diversi, e dal momento che in democrazia i numeri contano, per pesare devi esserci.
Le recenti elezioni politiche, al netto del disastro registrato e della condizione di totale ingovernabilità in cui versa ancora il paese, ci hanno consegnato una grande opportunità di cambiare le cose.
Parlamento e Senato hanno oggi rafforzato la presenza femminile che passa dal 21% al 32% alla Camera e dal 19% al 30% al Senato e il PD ha raggiunto nelle sue liste il 41% di presenza femminile.
Il segnale è incoraggiante. Bisognerà adesso tradurre in azioni questi numeri, cercando di scuotere profondamente la nostra organizzazione sociale.
Siamo ad un bivio, con la possibilità di prendere diverse strade, ciascuna delle quali aprirà prospettive diametralmente opposte e oggi quello che accadrà potrebbe dipendere anche da quanto e come le donne interverranno sulla scena pubblica.
Come donne della CGIL faremo sentire la nostra voce, chiedendo risposte precise ai problemi che quotidianamente fronteggiamo, perché un piano del lavoro e una visione globale noi l’abbiamo.
Il nostro è un piano che deve necessariamente tenere insieme lavoro e welfare, ormai ridotto all’osso e orientato sempre più verso una logica individuale, più assicurativa che solidale, con la conseguenza che sono i più deboli ad esserne esclusi: donne, giovani, immigrate, anziani.
Per non parlare delle pensioni, sempre più lontane oltre che più basse per le donne, a fronte di una mole di lavoro supplementare, quello di cura, che non viene neanche riconosciuto.
Su questo tema noi pensiamo che la riforma Fornero vada radicalmente rivista, prevedendo la rivalutazione delle pensioni e inserendo il principio di flessibilità dell'età di ritiro dal lavoro.
Inoltre, crediamo che utilizzando risorse provenienti dalla lotta all’evasione, andrebbe riconosciuto l’accredito della contribuzione figurativa in relazione ai lavori di cura prestati, per cominciare a ripristinare condizioni di equità, perché è impensabile continuare ad immaginare di allungare i tempi per accedere alla pensione, ritardare o peggio impedire l’accesso al lavoro per le donne, renderle precarie, e caricarle di tutto il peso dovuto all’assenza di welfare – GRATIS!
Queste dunque devono essere le prime rivendicazioni da avanzare.
Ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte, con la contrattazione.
Su questo tema in particolare mi piacerebbe accendere il dibattito, avviando una discussione dalla quale tirar fuori i punti che dovranno contraddistinguere la nostra azione sindacale nei difficili mesi che abbiamo di fronte.
La discriminazione infatti è spesso, anche se non sempre, un fatto collettivo, per questo la contrattazione deve svolgere una decisa azione di contrasto, tenendo presente il fatto che è proprio la contrattazione sindacale che ha avuto il merito storico e politico di anticipare quanto la legislazione ha poi confermato ed esteso a livello di norme statuali.
Ma per avanzare su quel terreno, abbiamo la necessità di modificare il nostro approccio, di lavorare a tutti i livelli, con l’obiettivo di cambiare prima di tutto l'organizzazione del lavoro che, come dicevo prima è estremamente rigida, maschile (oltre che maschilista), nella quale qualità e competenza spesso soccombono di fronte ad un meglio codificato e più diffuso sistema fatto di soggezione e rispetto delle gerarchie.
E abbiamo allo stesso tempo bisogno di rendere la contrattazione più inclusiva, per far si che i diritti, soprattutto quelli universali, vengano riconosciuti a tutte le lavoratrici ed i lavoratori, richiamando anche il principio di responsabilità sociale delle imprese.
Il riferimento è a quel vergognoso accordo separato siglato lo scorso anno alle Poste da 4 OO.SS., caparbiamente recuperato dalla nostra organizzazione.
Un accordo che escludeva le donne in astensione obbligatoria per maternità dal riconoscimento del bonus presenza (140 euro), perché assenti esattamente nei termini previsti dalla Legge.
L’assenza non è tutta uguale. Considerare ai fini del calcolo della presenza nella stessa maniera un’assenza obbligatoria per maternità ed una per qualsiasi altro motivo, opera a monte una discriminazione, ed è inaccettabile.
Oggi quell’ingiustizia è stata sanata, e ne siamo ovviamente soddisfatti, ma non possiamo ignorare il fatto che quell’accordo sia stato siglato.
Il che ci deve dire due cose:
- la prima è che l’arretramento, anche culturale è arrivato ad un punto tale da far sì che anche un’azienda come Poste, con 140 mila dipendenti, di cui il 53% è donna immagina oggi di poter passare sopra diritti inviolabili come quello alla maternità in nome del profitto a tutti i costi - il che la dice lunga su cosa accade ogni giorno nelle piccole e piccolissime aziende e a quali discriminazioni siano sottoposte le lavoratrici, soprattutto le più deboli, le precarie.
- la seconda, è che è necessario uscire da un’ottica che relega solo a specifici capitoli family friendly i temi delle pari opportunità, perché il terreno non è solo quello.
Avanzare nella contrattazione con una visione di genere significa esattamente questo. Significa capire e contrastare azioni che nascondono discriminazioni di genere su temi generali, apparentemente neutri, come quello dell’assenza o della presenza.
La differenza di genere diviene allora un’ottica per leggere la realtà, per meglio cogliere temi e problemi, limiti e potenzialità del nostro agire e questa può trasformarsi in uno straordinario strumento, utile alla modernizzazione dell’intero sistema contrattuale.
In questa direzione, va anche la proposta fatta dalla Confederazione nel corso dei seminari di dicembre, relativa al tentativo di dare vita ad un avviso comune tra OO.SS. e Confindustria, per impegnare tutte le aziende aderenti a non sottoscrivere accordi in cui il congedo obbligatorio per maternità venga considerato elemento penalizzante, in particolar modo per il riconoscimento del premio di produttività.
Queste cornici di riferimento sono indispensabili, oggi più che mai, perché supportano e rafforzano l’attività quotidiana di chi contratta, a tutti i livelli.
Ma, come dicevo prima, per contrattare bisogna saper leggere realtà diverse, e per farlo, ci vogliono occhi e sguardi diversi. Per questo motivo, lo accennavo in premessa, le donne e gli uomini dell’SLC hanno deciso che la differenza di genere deve essere adeguatamente rappresentata anche e soprattutto nei luoghi in cui si fa la contrattazione.
La norma antidiscriminatoria si applica infatti nella nostra Categoria anche nelle delegazioni trattanti e nei coordinamenti di settore. Perché è importante che le donne ci siano, ma se non hanno la possibilità di incidere concretamente, nel sindacato, come in altri luoghi, servono a poco.
Oggi, grazie agli interventi che seguiranno, proviamo dunque a fare il punto, annodando i fili di un’azione generale con quelli più specifici della nostra categoria, chiamata di continuo a difendere conquiste ormai non più scontate.
Migliaia sono infatti le difficoltà delle donne che rappresentiamo, dove il confine tra lavoro autonomo e precarietà è spesso labile, come nel caso del mondo dello spettacolo.
Donne e lavoratrici profondamente diverse, che vogliamo provare ad unire lavorando ad un’idea di contrattazione che tenga però alcuni punti fermi, in tutti i settori.
Le proposte scaturite dall’ assemblea di giugno e dai successivi seminari devono rappresentare il solco entro il quale muoverci.
A partire dalla formazione, quale strumento per qualificare e riqualificare lavoratrici e lavoratori e quindi elemento indispensabile per contribuire ad affermare la presenza e la professionalità delle donne nel mdl e a non penalizzarle dopo una assenza medio-lunga.
Con lo stesso spirito bisogna poi rilanciare, ma a dire il vero noi abbiamo buone pratiche in tal senso, il tema della bilateralità, per esercitare la nostra parte di controllo sulle azioni formative e assicurarci che vadano nella direzione di una reale qualificazione professionale.
Così come nei CCNL, il capitolo formazione andrebbe curato prevedendo ad esempio una specifica indicazione su come renderla fruibile in termini di tempi, sedi, orari e modalità.
Dal momento infatti che per le donne il fattore tempo non è ininfluente e che sono loro i soggetti portati più spesso ad interrompere per periodi medio-lunghi il proprio lavoro, per portare a termine una gravidanza, ma anche, purtroppo, per espulsione dal mercato del lavoro, bisogna porre un’attenzione maggiore al tema, definendo meglio le modalità di fruizione, al fine di creare le condizioni più idonee alla partecipazione femminile.
Su questo tema, uno sforzo in più, almeno nelle aziende più grandi, andrebbe compiuto dalla contrattazione di II livello, con il supporto delle Commissioni Pari Opportunità il cui ruolo, però, appare ancora debole.
La loro azione va invece rafforzata, a loro spetta il delicato compito di verificare l’esistenza di cambiamenti che gli eventuali accordi siglati abbiano prodotto nell'organizzazione delle imprese e nella vita professionale delle lavoratrici, ma anche il compito di effettuare un monitoraggio costante per evidenziare processi e progressioni di carriera, denunciando eventuali discriminazioni.
Diversamente il cerchio non si chiude, potremo anche scrivere meravigliosi accordi, ma non ci sarà nessuno in grado di garantirne la completa lettura e la corretta applicazione.
Sul tema della flessibilità, poi, bisogna cambiare approccio. Spezzare un’ottica rigida, maschile anche nei termini.
In Telecom è stato fatto un ottimo accordo, che consente ai lavoratori di avere turni agevolati, ma si chiamano “Turni mamma”, consolidando anche a casa nostra l’idea che la gestione di un figlio debba esclusivamente essere affidata alle donne.
Dovremmo invece incidere maggiormente per far sì che a partire dalla fruizione dei congedi parentali non si applichi una discriminazione a monte, né pratica, né tantomeno culturale.
Il diritto ad essere accudito è del bambino, non si capisce dunque perché ci debba essere un “turno mamma” e non un “turno genitore”.
Esperienze fatte, dimostrano che adottando modelli che fanno incontrare le esigenze aziendali e quelle delle lavoratrici e dei lavoratori si riducono i fenomeni di assenteismo e si incrementa la produttività, su questo allora bisogna maggiormente spingere.
Non di voucher dunque c’è bisogno, ma di strumenti contrattuali che modulino il lavoro, a partire dagli orari, in maniera intelligente, rendendo la vita meno difficile alle lavoratrici che diversamente si vedranno relegate in una dimensione in cui il part time (quasi mai volontario) è l’unica condizione per sopravvivere, in un precario equilibrio tra la sfera lavorativa e quella familiare.
Ma il problema dell’orario non è purtroppo l’unico.
Abbiamo una responsabilità più grande e più urgente oggi, che è quella di mettere paletti precisi, soprattutto in una condizione drammatica come quella attuale, in cui siamo chiamati a gestire accordi tendenti alla difesa del maggior numero possibile di posti di lavoro.
Ma è proprio in questi casi che bisogna porre più attenzione.
Quando ad esempio si affrontano riorganizzazioni e viene posto il tema della mobilità interna, bisogna tenere presente che l’impatto della mobilità, specie quella nazionale non è uguale su un uomo e su una donna - magari madre - e stabilire priorità e confini.
In difetto di simili azioni, rischiamo di contribuire al già grave fenomeno delle dimissioni femminili.
Così come quando discutiamo di organizzazione del lavoro, dobbiamo considerare attentamente le differenze fisiche esistenti tra uomini e donne, portatori ognuno di condizioni di partenza diverse, di diverse modalità percettive e anche di differenti vulnerabilità. Differenze che si ripercuotono inevitabilmente anche sui rischi affrontati.
Anche in questo caso dunque la lettura di genere è indispensabile, per adottare un approccio che rispetti la tutela della salute e sicurezza sul lavoro partendo dal riconoscimento delle diversità che caratterizzano i due generi.
Concludo con una frase che mi diceva sempre mia nonna per aiutarmi quando cercavo qualcosa e non riuscivo a trovarla: “quattro occhi vedono meglio di due”, credo che si adatti al ragionamento che stiamo facendo oggi…