06 marzo 2014

Teleperformance fa marcia indietro: i call center restano in Italia

di Federica Meta
Teleperformance fa marcia indietro e decide di tenere in Italia i servizi di back office dell’Eni e di non delocalizzare in Albania. L’annuncio è arrivato ieri in occasione dell’incontro coi sindacati nelle sede romana di Confindustria. “La decisione dell’azienda è frutto della pressione che il sindacato ha esercitato sul committente (Eni ndr) si è fatta sentire – spiega Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil – così come della decisione di denunciare le aziende che optano per la delocalizzazione pur avendo incassato i finanziamenti pubblici destinati alle imprese che hanno regolarizzato i lavoratori tra il 2006 e il 2008. E Teleperformance è tra queste”.

L’incentivo, deciso nell’ultima legge di stabilità, ha un importo massimo di 200 euro per lavoratore e, in anno, non può superare i 3 milioni di euro per ciascuna azienda né il 33% dei contributi previdenziali pagati da ciascuna azienda; si riconosce il limite massimo di 8 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016.

Per Salvo Ugliarolo segretario nazionale della Uilcom la decisione di Teleperformance “ è certamente un segnale positivo che però non farà demordere il sindacato dalla volontà di proseguire con denunce ed esposti contro le aziende di call center”.

Lo scorso 19 febbraio Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil hanno deciso di innalzare il livello dello scontro sulla delocalizzazione dei call center, chiedendo alle istituzioni e a tutte le autorità preposte ai controlli cdi vigilare direttamente sul rispetto della legge, in particolare di quell’articolo 24 bis del Decreto sviluppo varato nel 2012 che oggi sarebbe in gran parte disatteso dalle aziende e che obbliga le imprese ad avvertire l’utente da dove parte o dove arriva la telefonata.

"Nelle scorse settimane anche i sindacati dell'energia erano scesi in campo a sostegno dei lavoratori di Teleperformace - spiega Fabio Gozzo della Uilcom - Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec hanno scritto all’Eni Divisione Gas&Power ed Eni Corporate per denunciare la delocalizzazione di alcune attività terziarizzate da Eni presso call center esterni (Teleperformance a Durazzo, Comdata in Romania e Assist a Fiume ndr) condannando in maniera decisa la volontà di Teleperformance di trasferire in Albania un’attività del back office di un importante committente legato al mondo dell’energia, di piano nazionale".

Sulla necessità di agire per scongiurare le delocalizzazioni è intervenuto  anche l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano – oggi presidente della commissione Lavoro della Camera – accendendo i riflettori sulle gare al massimo ribasso che vanno sanzionate. “Se anche il costo del lavoro è al massimo ribasso le aziende spostano le attività laddove pagano di meno il personale altrimenti i parametri di gara non potrebbero mai essere rispettati – spiega Damiano – In questo senso gli gli sgravi previsti dalle legge 407 non sono sufficienti. Bisogna creare margini di convenienza nel costo del lavoro, premiando le aziende che rispettano le leggi. L’azione più incisiva è quella sulla riduzione del cuneo fiscale che avrebbe un doppio beneficio: il lavoro costerebbe meno all’imprenditore che, dunque, sarebbe più incentivato a mantenere le attività in Italia, e per i lavoratori ci sarebbero meno tasse in busta paga. Tale situazione trasformerebbe il lavoratore in un cittadino consumatore e non in un lavoratore povero”.

Quello dei call center in outsourcing è un settore che occupa in tutto più di 75mila lavoratori, di cui 43mila "in bound" e 33.500 "outbound", con contratti cioè di collaborazione a progetto. Il 63% dei lavoratori, secondo i dati forniti dai sindacati è concentrato nelle aree del Sud, il 37% nel Centro Nord. L'età media delle persone occupate in questo settore è inferiore ai 30 anni.


Damiano: "Premiare i call center in regola"

Sui call center serve avviare un’azione di governo a tutto campo che riguardi sia il fisco e sia le garanzie sulle condizioni contrattuali del lavoratori. È questa la ricetta che Cesare Damiano, deputato Pd e presidente della commissione Lavoro della Camera, ha in mente per il rilancio del settore dei call center, ad alto livello occupazionale.
Presidente Damiano, qual è il primo passo da fare?
 Complessivamente è necessario che si creino condizioni di convenienza e trasparenza che portino le imprese ad operare nei termini di legge. Ai tempi dell’ultimo governo Prodi, in qualità di ministro del Lavoro, ho approntato una sorta di decalogo dei mestieri che non potevano essere riconducibili ad altro se non a lavori subordinati. Tra questi c’era anche l’operatore dei call center inbound.
Quando era ministro del Lavoro è riuscito a far stabilizzare 24mila persone. Sembrava che i tempi della deregulation fossero finiti. Cosa è accaduto?
Quella circolare ministeriale (conosciuta come circolare Damiano, ndr) era frutto di una collaborazione a tre tra governo, imprese e sindacati che aveva portato a distinguere tra lavoratori  inbound e outbound. Nel primo caso si era evidenziata la caratteristica di lavoro subordinato da regolare con contratto collettivo, nel secondo si accettava la formula ibrida subordinato-autonomo che si poteva gestire con il contratto a progetto. La finalità di quella disposizione era di delimitare l’utilizzo del lavoro coordinato e  continuativo a quelle sole prestazioni  che fossero genuinamente autonome perché effettivamente riconducibili alla realizzazione di un programma o progetto gestito dal lavoratore in funzione del risultato. In quel momento molte aziende, tipicamente le più grandi, hanno accettato di stabilizzare tutti i lavoratori con la formula del contratto di lavoro subordinato. Successivamente con il governo Berlusconi e Maurizio Sacconi ministro del Lavoro, la deregulation è ricomparsa sotto forma di diffusione dei contratti a progetto anche per gli inbound.
C’è una responsabilità politica, dunque. Ma le imprese?
Diciamo che alcune aziende di settore, soprattutto quelle più piccole o nuove arrivate,  hanno portato avanti un comportamento opportunistico anche collegato all’assenza di una politica di governo chiara sui temi del lavoro. Il risultato è stato uno scompenso dei costi  nel settore dei call center che ha messo fuori mercato le imprese che, invece, rispettavano la legge applicando la giusta distinzione tra operatori inbound e outbound. Ma la complessità dell’attuale situazione in cui versano i call center risiede anche in altro.
Ovvero?
Negli ultimi tempi le committenze, sia pubbliche sia private, hanno come fulcro gare di appalto al massimo ribasso. Si tratta di ribassi che non vanno ad intaccare i costi cosiddetti impropri, ma il costo della manodopera. Ribassi che vanno fino al 40% sono al di sotto della soglia del costo orario di qualsivoglia lavoro. Questa situazione spinge al lavoro nero, spurio e sottopagato.
E alle delocalizzazioni.
Esattamente. Se anche il costo del lavoro è al massimo ribasso le aziende spostano le attività laddove pagano di meno il personale altrimenti i parametri di gara non potrebbero mai essere rispettati.
Lei dice che c’è bisogno di nuovi strumenti fiscali per cambiare marcia. Non bastano più gli sgravi previsti dalle legge 407?
Non sono sufficienti. Bisogna creare margini di convenienza nel costo del lavoro, premiando le aziende che rispettano le leggi. L’azione più incisiva è quella sulla riduzione del cuneo fiscale che avrebbe un doppio beneficio: il lavoro costerebbe meno all’imprenditore che, dunque, sarebbe più incentivato a mantenere le attività in Italia, e per i lavoratori ci sarebbero meno tasse in busta paga. Tale situazione trasformerebbe il lavoratore in un cittadino consumatore e non in un lavoratore povero.
Per accendere i riflettori sul lavoro nei call center lei ha presentato un emendamento ad hoc nell’ultima legge di Stabilità. Cosa prevede?

Nella sintesi concede un beneficio in favore delle aziende operanti nel settore dei call center che abbiano attuato le misure di stabilizzazione dei collaboratori a progetto previste dall’articolo 1, comma 1202, della legge 296/2006. Il beneficio concesso per il 2014 è pari a un decimo della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali per ciascun lavoratore stabilizzato per un periodo massimo di 12 mesi. È un punto di partenza perché le risorse erano molto limitate, che deve coinvolgere successivamente tutte le aziende che hanno stabilizzato.