di Alessandro Bonvini
Quarant’anni, diverse bombe e molti proiettili fa nel palazzo de La Moneda moriva Salvador Allende. Da quell’11 settembre 1973, fino al marzo 1990, per diciassette odiosi anni la dittatura di Augusto Pinochet governò impunita, torturando, reprimendo, uccidendo. Quel giorno di settembre il piano dell’Operazione Condor poteva dirsi riuscito e il piano per rovesciare il parlamento cileno era entrato nella sua fase finale, obiettivo: abbattere un governo democraticamente eletto ed instaurare un regime dittatoriale. In quelle ore di drammatica violenza e feroce tristezza, come le ha definite ultimamente Luis Sepúlveda, il presidente Allende decise di resistere. E lo fece impugnando un Ak-47 che qualche tempo prima gli aveva regalato Fidel Castro. Lui, Allende, rivoluzionario convinto che fece la rivoluzione senza sparare un colpo, con la costituzione in mano ed il socialismo nella testa, resistette per oltre sei ore nel palazzo presidenziale, in maniche di camicia e con un caschetto da minatore in testa.
Nel frattempo Santiago del Cile, i suoi lavoratori, i suoi giovani e tutti quelli che avevano creduto nell’Unidad Popular difendevano la città, le strade e le fabbriche con quello che avevano. La storia di quelle tragiche ore si fece subito cronaca di un golpe, maledettamente spietato e scientificamente orchestrato. All’alba dell’11 settembre la marina occupò i posti strategici di Valparaíso e cominciò ad arrestare dirigenti politici e sindacali. Poche ore dopo, Allende pronunciò il primo dei suoi cinque discorsi alla nazione. Al generale Van Schowen, che gli proponeva un aereo per lasciare il paese assieme alla famiglia, gli fece rispondere: “Il presidente del Cile non scappa in aereo; che egli sappia comportarsi da soldato, che io saprò compiere il mio dovere come presidente della Repubblica”. E gli diede la sua parola.
La situazione però precipitava velocemente e alle 9 del mattino tutte le Forze Armate si erano sollevate, mentre il palazzo presidenziale cominciava ad essere circondato dai militari e dai mezzi blindati. Il colpo di stato era nelle sue fasi cruciali e l’esperimento del socialismo cileno si stava consumando nel sangue, e con esso le speranze di un paese intero. A quell’ora, in quel momento, Allende sapeva che ormai ogni speranza era diventata vana e che qualsiasi tentativo insurrezionale si sarebbe trasformato in una carneficina. Di fronte all’infamia dei traditori restava solo l’onore dei giusti. Gridò alla radio: “Pagherò con la vita la mia lealtà al popolo”. E diede al popolo cileno la sua parola di presidente e uomo libero.
Verso l’una i militari cominciarono a fare irruzione a La Moneda dove Allende resisteva con alcuni dei suoi uomini più fidati. Ordinò ai suoi la resa, mentre lui rimase indietro. Il presidente rivoluzionario, che fece la rivoluzione senza sparare un colpo, per la prima volta sparò. Suicidandosi.
Qualche ora prima, il presidente Salvador Allende aveva detto: “Io da qui non esco vivo”. Anche in quell’istante aveva dato la sua parola.