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C’è chi li denigra, chi è stufo di ricevere ripetute proposte di vendita e chi invece ci campa, pure a stento. Ossessivi, fastidiosi, martellanti call center non godono, si sa, di buona reputazione ma anche dalla loro parte un po’ bisogna mettersi. Senza esagerare però.
Il periodo di crisi generale non risparmia nemmeno le grandi società leader nella gestione di call center per aziende private ed enti pubblici. Ci pensano la delocalizzazione selvaggia e le gare al ribasso a stringere la morsa attorno al collo di queste società mettendo a rischio circa 10 mila posti di lavoro. Gli italiani vengono quindi licenziati in massa mentre gli stranieri, i delocalizzati, vengono sottopagati.
La spinta competitiva si abbassa notevolmente per chi non vuole portare il lavoro all’estero e così l’intero comparto produttivo si ritrova a navigare in un mare di… guai.
Da Montecitorio al Ministero dello Sviluppo Economico delegati delle aziende, sindacati e associazioni a tutela del settore delle Telecomunicazioni hanno chiesto l’apertura di un tavolo di discussione e lo hanno ottenuto. Primo appuntamento il prossimo 27 maggio. L’obiettivo sarà quello di trovare una soluzione per “salvaguardare e rilanciare l’occupazione di un settore – scrivono nei comunicati – che ha garantito negli anni sviluppo e occupazione per il nostro territorio”. Altro appuntamento invece, qualche giorno dopo, sempre a Roma, fissato per la grande manifestazione nazionale dei lavoratori uniti nella protesta contro la delocalizzazione.
In Italia sono circa 80 mila le persone che lavorano in cuffia per 4, 6, 8 ore al giorno e non si tratta più solo di ragazzi che vogliono (o devono) pagarsi gli studi o la vita da fuori sede, ma si trovano con molta facilità anche padri e madri di famiglia, laureati, professionisti costretti a un lavoro alternativo perché quello per cui si è investito per anni non può dare i frutti sperati. Il 63% dei lavoratori è concentrato nelle aree del Sud, il 37% al Centro Nord. L’83% degli operatori inbound (per intenderci quelli che rispondono ai numeri verdi) ha contratto part-time, mentre gli operatori outbound (che chiamano per loro iniziativa, in sostanza i più odiati) hanno contratto a progetto. Oltre la beffa, il danno. Sì perché questi famosi contratti altro non sono che la copia regolamentare e scritta di uno stipendio “da fame”. Dai 3 ai 4 euro lordi l’ora, più una quota simile a ogni contratto che l’operatore riesce a concludere. Una vera spinta motivazionale.
Ma ciononostante il ragazzo di turno, la mamma o il professionista acconsentono e firmano il loro CoCoPro. Anche se a queste condizioni, perdere il lavoro non è certo contemplato. Così si fa leva sulla riunione prevista dal Mise che affronterà i temi del ciclo produttivo e della riattivazione dell’Osservatorio nazionale sui call center per monitorare cioè sia il fronte delle condizioni di lavoro sia quello del servizio ai clienti.
Tavolo tecnico a parte, dai call center italiani è già partita una campagna di mobilitazione: “Anch’io a Roma il 4 giugno” ad alto contenuto virale, condivisa da centinaia di utenti sui social network. Pronte anche le t-shirt su cui sarà stampato “L’urlo” di Munch, simbolo della protesta e fedele rappresentazione degli stessi operatori a fine giornata lavorativa, finalmente liberi dalla cuffia.
Daniela Pugliese