di Alessandro Genovesi
Segreteria nazionale Slc-Cgil
Il recente piano industriale presentato da Telecom Italia, con oltre 6.800 nuovi esuberi e un drastico taglio agli investimenti, dimostra come ancora una volta gli interessi finanziari prevalgano sugli interessi del paese e dei lavoratori. Per il sindacato si pone nell’immediato una questione di giustizia sociale negata e un problema di difesa dell’occupazione minacciata.
Anche se è evidente che quelli che vengono al pettine sono nodi “più antichi” e che ormai non è più rinviabile una riflessione generale sul futuro del settore. Una riflessione che deve partire dalla constatazione che la privatizzazione della principale azienda del paese, per come si è realizzata, è stata un fallimento e che oggi occorre dispiegare un nuovo “progetto strategico” per l’intero settore.
Telecom dieci anni fa era un’azienda con oltre 120.000 dipendenti, con una capacità d’investimento superiore a 10 miliardi di euro l’anno, senza debiti e con una forte concentrazione di competenze. Oggi è un’azienda profondamente in crisi, con meno di 58.000 lavoratori, priva di una strategia in grado di risolvere il problema dell’eccessivo debito e degli attuali assetti proprietari.
Soprattutto un’azienda che non è più capace di essere “il motore dell’innovazione”. E non migliore è il panorama dell’intero settore: le aziende più o meno forti affacciatesi sul mercato italiano si sono progressivamente svuotate di professionalità e il loro finire tutte (eccetto Tiscali) in mani straniere ci consegna un saldo negativo per gli interessi del paese.Oggi il futuro delle telecomunicazioni è indissolubilmente legato a quello di Telecom Italia. E il futuro di Telecom passa dal risolvere la principale contraddizione che tutti – anche noi come sindacato – abbiamo di fronte: da un lato, la rete Telecom rappresenta un’infrastruttura strategica per il paese, necessaria per fare la rete di nuova generazione (Ngn) con la graduale sostituzione di rame e centrali. Un “bene comune”, nell’accezione più ampia. Ma dall’altro siamo tutti ben consapevoli che una valorizzazione della rete Telecom, fuori dal perimetro dell’azienda, farebbe venir meno quell’integrazione verticale tra settori (a partire dall’informatica e dai costumer) che – oltre a contraccolpi occupazionali – priverebbe Telecom della possibilità di riposizionarsi su servizi personalizzati, sull’offerta di soluzioni informatiche e Ict convergenti.
Pensare di sciogliere questo nodo al di fuori di una più ampia vertenza sul futuro delle tlc e dell’Ict nel paese è impossibile. Il battersi contro ogni ulteriori ipotesi di smantellare l’attuale integrazione tra funzioni in Telecom e difendere l’equilibrio raggiunto con Open Access, deve andare di pari passo con una grande mobilitazione sulla “politica industriale” del paese. Convergenza, integrazioni tra media, produzione di contenuti, nuovi servizi informatici, nuova funzione pubblica del sistema di telecomunicazioni: è intorno a questa riflessione che dobbiamo compiere una “mossa del cavallo”.
Risorse pubbliche per la Ngn (a cui Telecom potrebbe compartecipare, mettendo a disposizione la propria rete), piano straordinario per la costituzione di poli informatici di eccellenza, ricostruzione di una “filiera dell’Ict”: ecco le sfide che il paese ha di fronte se vuole dare un assetto più duraturo e di prospettiva al settore. Questo il livello a cui Slc e Cgil devono posizionarsi, chiamando i partiti, il governo, le istituzioni, le intelligenze diffuse, il mondo della ricerca, il sistema delle imprese a uno show down.
Alcuni punti chiave su cui “stanare” i nostri interlocutori:
1) occorre prendere atto che oggi le aziende delle tlc e dell’Ict in Italia non sono in grado di sviluppare da sole quella massa di investimenti necessari a dotare il paese di una delle infrastrutture strategiche per il futuro: le reti di nuova generazione.Tanto meno ne sono in condizione i tanti enti locali.
2) Serve una dotazione di risorse pubbliche straordinaria, con una proposta concreta su dove reperirle, da mettere poi a bando sul modello Usa (partecipino allora Telecom, Fastweb,Vodafone ecc.) o tale da permettere una compartecipazione in un network fatto da Telecom e dai principali operatori di Ict (Ibm, Accenture, Agile-Eutelia, Ericsson ecc.). Al riguardo, la Cgil si dovrebbe fare portatrice di una proposta forte: i 4 miliardi previsti per il Ponte sullo Stretto potrebbero essere più utilmente investiti in una rete diffusa di telecomunicazioni di nuova generazione. I 4 miliardi potrebbe sommarsi agli investimenti privati (3 miliardi le attuali disponibilità annunciate dai privati) in un meccanismo consortile, garantendo da qui al 2012-2013 almeno la copertura a 100 mega di tutti le aree urbane con più di 20.000 abitanti (dati ministero dello Sviluppo economico 2009). Del resto, mentre noi fatichiamo anche solo a trovare risorse per garantire i 2 mega, negli Usa Obama stanzia 25 miliardi di dollari, 12 miliardi di euro la Francia, 11 la Germania per garantire dai 100 a 500 mega.
3) Al contempo, occorre sviluppare una strategia di aggregazione della possibile “domanda”: pubbliche amministrazioni, enti locali, sistemi sanitari, bancari, devono essere coordinati da una regia pubblica per l’aggregazione delle possibili domande, al fine di rendere profittevoli già nel breve periodo gli investimenti degli operatori Ict. Premessa per fare tutto ciò è una chiara e stabile definizione dei target di rendimento degli investimenti nelle Ngn. Agcom e governo devono definire in tempi brevi e una volta per tutte la politica di rendimento diretto (e in passaggio) delle risorse investite, siano esse di natura pubblica (come rendimento allo Stato dell’investimento fatto) che privata (compartecipazione Telecom, altri operatori, altri soggetti dell’Ict).
Occorre cioè sapere se fatto 100 l’investimento, il canone minimo garantito è di X euro l’anno. Accanto all’autostrada, vanno pensate le “automobili”. La scomposizione prima e la crisi poi delle grandi aziende informatiche (Olivetti, Bull, Getronics – oggi Agile- Eutelia – Accenture, Ibm) hanno portato infatti alla crisi di un comparto strategico, fondamentale per integrare le strategie di convergenza e sviluppo delle aziende industriali e di tlc. Per troppo tempo si è assimilata una visione delle imprese di Ict esclusivamente finalizzata all’erogazione e alla “manutenzione” di prodotti informatici esteri, facendo venire meno una strategia generale del sistema paese per l’innovazione degli apparati produttivi.
Occorre approfittare allora della riorganizzazione del settore per un grande progetto di politica industriale che tenga insieme tutta l’Ict, avendo come interlocuzione non solo Asstel, ma l’intera Confindustria-Servizi innovativi: un grande piano per l’Ict italiano, in grado di valorizzare le professionalità presenti nelle diverse aziende oggi in crisi, rilanciando così anche una più generale politica per la ricerca applicata alle nuove soluzioni tecnologiche e organizzative. Non è strategia diversa da quella per le tlc e le Ngn, ma il suo naturale complemento, ritagliato sulle esigenze e specificità dei nostri sistemi sociali ed economici. È necessaria una proposta industriale per tutta la filiera, coerente con l’idea di un grande contratto nazionale di
lavoro dell’Ict. Obiettivo che come Cgil ci eravamo dati con il ccnl di settore nel 2001. Anche perché altrimenti la prospettiva dell’attuale contratto delle tlc sarà quella di un trascinamento verso il “basso”, più verso i call center che non verso la parte avanzata della ricerca e dello sviluppo It.
Senza un’industria dell’innovazione forte che accompagni la creazione delle reti di nuova generazione, che le renda “multi applicabili” per utilizzare un linguaggio caro agli informatici, rischiamo infatti il fallimento di ogni possibile modernizzazione dell’apparato produttivo, creando una Ngn vuota o dove altri producono ciò che dovrà passare. Il limite vero dell’attuale piano industriale di Telecom è proprio questo: l’incapacità d’individuare una strategia all’altezza delle sfide reali che il settore ha davanti. Occorre allora “alzare” il tiro: il punto non è solo quanti esuberi contrastare questa volta in attesa di quelli futuri, ma esplicitare fino in fondo l’assenza totale di un’idea trainante, da parte dell’attuale management e proprietà, per riposizionare da protagonista l’azienda nei prossimi anni. Su questo Bernabè va sfidato senza sconto alcuno.