Dall'introduzione della tematica del Mobbing in Italia, sembra assodato che si sia diffusa una conoscenza di massima del fenomeno e delle sue gravi conseguenze. Di pari passo con il Mobbing è cresciuta una generale sensibilità verso le problematiche legate alla sicurezza sui luoghi di lavoro, intesa sia a livello strutturale, sia appunto a livello relazionale. Anche se vi è ancora molta strada da percorrere, non si può che essere soddisfatti dei passi comunque mossi in questa direzione.
Questo risultato positivo, tuttavia, è purtroppo controbilanciato dalla serie negativa che il Mobbing ha segnato sul fronte delle azioni giudiziarie. Fanno grande notizia alcune sentenze clamorose pronunciate in merito, tuttavia non altrettanta pubblicità viene riservata alle tante, tantissime cause di Mobbing, di lavoro soprattutto ma anche penali, che finiscono in nulla, respinte al primo esame, cadute a suon di prove fallite, smarrite nei tempi allucinanti della Giustizia, dirottate e spesso purtroppo stravolte in affrettate ed incerte trattative extragiudiziarie. La verità nuda e cruda è che la stragrande maggioranza delle azioni giudiziarie di Mobbing fallisce, e che, a parte qualche caso particolare, fallisce perché effettivamente di Mobbing non si trattava.
La diffusione della conoscenza del Mobbing ha infatti permesso alla maggioranza degli operatori chiamati a trattare il problema, siano questi psicologi, medici, avvocati o giudici, di riconoscere alcuni tratti fondamentali connotanti il Mobbing e di discriminare di conseguenza. Uno di questi tratti è la sistematicità, frequenza e regolarità delle azioni ostili perpetrate ai danni della vittima: laddove insomma non emerge una situazione di conflitto permanente, con attacchi costanti e ripetuti contro il presunto mobbizzato, sempre più giudici rigettano, a ragione, le domande di Mobbing.
Dunque dobbiamo credere a chi è sicuro che il Mobbing non esista e che tutti i presunti mobbizzati siano dei mistificatori in cerca di facili e ingiusti guadagni? Certamente no. Se così stessero le cose, tutti i ricercatori, i professori e gli studiosi europei di Mobbing sarebbero vittime di un'allucinazione collettiva.
D'altra parte, è un dato di fatto che la maggior parte di chi si ritiene vittima di Mobbing in realtà non lo è affatto. Secondo le ricerche condotte da PRIMA su oltre tremila vicende lavorative analizzate in dieci anni di lavoro, è che solo un caso su cinque si riveli all'analisi come effettivamente riconducibile a Mobbing. E il resto? Vi sono senz'altro persone che ritengono di aver finalmente trovato un nome ad un disagio che invece purtroppo è insito nella loro mente; vi è allo stesso modo anche un certo numero di personaggi in cerca di cuccagne, ma non sono certo la maggioranza.
Noi stimiamo che circa il 60% di chi si ritiene mobbizzato abbia effettivamente subito sul lavoro un trattamento ingiusto, discriminante e lesivo, anche se non definibile come Mobbing. La maggior parte di queste persone sono state vittime di poche azioni ostili distanziate nel tempo, oppure di un'unica, isolata azione ostile, per esempio un grave demansionamento o un trasferimento gravoso ed illegittimo.
L'esempio tipico è quello di un lavoratore relegato a mansioni inferiori e umilianti e là tristemente "dimenticato", che da tale situazione riporta pesanti conseguenze, non solo a livello professionale, ma anche di salute, di autostima, di serenità famigliare, di socialità, di qualità della vita in senso lato.Siamo partiti dunque da questa realtà che si manifestava chiaramente davanti a noi per ipotizzare che vi fosse qualcosa oltre il Mobbing e per giungere quindi a teorizzare l'esistenza di un fenomeno lavorativo e sociale simile, ma diverso, capace per altro di causare gli stessi devastanti effetti sulla vittima, sull'azienda, sulla Società.
Questo nuovo fenomeno è stato denominato Straining, è già stato presentato in alcuni congressi internazionali di psicologia del lavoro e all'interno di una pubblicazione italiana (Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, di Harald Ege, ed. Franco Angeli, Milano, 2005) ed è stato già ufficialmente riconosciuto in una pionieristica sentenza (n. 286 del 21.04.05 Trib. del Lavoro di Bergamo).
Lo Straining è definito come una situazione di Stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo Straining (strainer). Lo Straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante.
Tecnicamente parlando lo Straining si colloca a metà strada tra il Mobbing e lo stress occupazionale. Non è Mobbing in quanto, come abbiamo visto, manca la sistematicità e la frequenza delle azioni ostili; d'altra parte è qualcosa di più del semplice stress occupazionale, ossia allo stress dovuto al tipo o alle condizioni di lavoro. Le vittime di Straining infatti sono oggetto di uno Stress che è forzato, cioè superiore a quello normalmente richiesto dalle loro mansioni lavorative e diretto nei loro confronti in maniera intenzionale e discriminante: in sostanza, solo a loro – siano essi una sola persona o un gruppo – viene riservato quel tipo di trattamento illecito e dannoso.
In una situazione di Straining, infatti, l'aggressore (strainer) sottomette la vittima facendola cadere in una condizione particolare di stress con effetti a lungo termine. Tale stress può derivare dall''isolamento fisico o relazionale o dalla passività generale nei confronti della vittima, dalla privazione, dalla riduzione o dall'eccesso del carico lavorativo. In sostanza, possiamo essere relegati in una stanza in fondo al corridoio dove nessuno passa o trasferiti nella classica filiale remota dove nessuno vorrebbe mai andare; possiamo essere sottoposti ad un eccessivo carico di lavoro o a mansioni superiori per cui non abbiamo preparazione adeguata, oppure possiamo essere deprivati nelle nostre mansioni, costretti a incarichi minori o addirittura all'inoperosità.
Tale nostra situazione sarebbe identificabile come stress occupazionale, se non fosse per il particolare, cruciale, che tale trattamente è riservato solo a noi. La discriminazione e l'intenzionalità del comportamento ostile di cui siamo vittime ci fanno percepire la nostra condizione come Mobbing, e da qui nasce l'equivoco.
A livello risarcitorio, i danni configurabili a seguito di una condizione di Straining sono del tutto paragonabili a quelli già riconosciuti come correlati al Mobbing, ossia un danno esistenziale specifico, legato al decadimento della qualità di vita della vittima, a cui possono - ma non necessariamente devono - aggiungersi altri tipi di danno come quello biologico, qualora dalla situazione di Straining ne sia risultata causalmente compromessa la salute psicofisica della vittima, o quello professionale, nel caso in cui la deprofessionalizzazione subita abbia avuto effetti deleteri in questo senso.
Come nel Mobbing, anche nello Straining dunque i vari professionisti lavorano in equipe per garantire la migliore tutela alla vittima: l'avvocato calibrerà le richieste secondo l'effettivo stato delle cose, il medico quantificherà gli eventuali danni biologici correlati, lo psicologo definirà lo Straining e il danno esistenziale. Quest'ultimo professionista, esperto in conflitti organizzativi, ha comunque il ruolo cruciale di distinguere e chiarire, in modo da indirizzare la persona nella giusta direzione di azione, al riparo da sproporzionate illusioni e conseguenti, profonde delusioni.
Come si riconosce lo straining
- Ambiente lavorativo: Il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro
- Frequenza: Le conseguenze dell'azione ostile devono essere costanti
- Durata: Il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi
Tipo di azioni Le azioni subite devono appartenere ad almeno una delle cinque categorie del «Lipt-Ege»
1) negazione degli atti umani;
2) isolamento sistematico;
3) demansionamento o privazione assoluta di qualsiasi mansione;
4) attacchi alla reputazione della persona;
5) violenza o molestie sessuali.
Dislivello fra gli antagonisti La vittima è in una posizione di costante inferiorità
Andamento secondo fasi successive La vicenda ha raggiunto almeno la Il fase del «modello straining ege a quattro fasi»
Fase I: azione ostile
Fase Il: conseguenza lavorativa permanente
Fase III: conseguenze psicofisiche
Fase IV: uscita dal lavoro
Intento persecutorio: Nella vicenda devono essere riscontrabili uno scopo politico e un obiettivo discriminatorio
Soluzioni per l'azienda:
1) Intervenire tempestivamente per la risoluzione del conflitto in caso di denunce;
2) formare il personale preposto al controllo del personale;
3) migliorare la qualità della comunicazione aziendale;
4) mediare fra le esigenze tecnico-organizzative e le esigenze/richieste dei dipendenti
Fonte: Elaborazione di Harald Ege
Anche un solo comportamento vessatorio, come il de mansionamento, che provoca stress psicologico nel lavoratore può trovare una formula su misu ra per il ristoro del danno subito.
In questo senso si è pronunciata la sentenza del Tribunale di Berga mo del 20 giugno 2005 che rappre senta attualmente un unicum nel panorama giurisprudenziale, di stinguendosi per le modalità con cui viene innovativamente tratta to un caso di dequalificazione professionale.
Si legge nelle motiva zioni della sentenza: «Considerata la gravità del comportamento po sto in essere ... desumibile dalla completa privazione delle mansio ni, dalla durata della dequalifica zione, dall'anzianità aziendale della lavoratrice e dalle modalità con cui è stato attuato, in maniera plateale quasi a rappresentare un monito per gli altri dipendenti che intendessero esprimere le proprie opinioni riguardo alle decisioni aziendali, il danno può essere quantificato in euro 500,00 per ogni mese di dequalificazione su bita (pari a circa l’80% della retri buzione netta della ricorrente)».
Per l'effetto, l'azienda convenuta in giudizio è stata condannata al pagamento in favore della lavora trice della somma complessiva di euro 15.000,00 a titolo di risarci mento del danno per la dequalificazione professionale e di euro 10.655,26 a titolo di risarcimento del danno biologico.
Lo straining
Con questa sentenza entra, però, anche a far parte del nostro dizionario giuridico la parola strai ning, letteralmente traducibile dalla lingua inglese come «forzatu ra» o «sforzo».
Il termine coniato, come si legge nella sentenza, da Harald Ege, psicologo, Consulente tecnico d'ufficio (Ctu) nella verten za in parola, va a definire i contor ni di quella profonda linea grigia rilevabile fra quelle situazioni che si pongono in bilico fra il mobbing (ormai ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza) e le altre particolari dinamiche psicologico-lavorative o psicologico-relaziona li, comunque in astratto social mente sanzionate o meramente disapprovate, ma generalmente non catalogabili come tali.
la sentenza
«La differenza tra lo straining e il mobbing», ha chiarito il giudice estensore, è stata individuata nella mancanza «di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vit tima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate nel tempo, spesso addirittura limitate a una singola azione, come un de mansionamento o un trasferimen to disagevole».
Pertanto, mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo strai ning è sufficiente una singola azio ne con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansiona mento)».
Il giudice bergamasco, attraver so la soluzione offerta, si è fatto quindi soprattutto interprete della necessità di determinare l'effetti va distinzione che vi è fra:
a) quel tipo di stress fisiologico all'occupazione, innescato da fat tori organizzativo-gestionali legati al normale svolgimento del rap porto di lavoro e che coincide con uno stato di malessere generaliz zato nell'azienda, dovuto a fattori oggettivi, ma con cui purtroppo ognuno deve imparare a convivere;
b) il mobbing, che invece rappre senta una situazione di conflitto interpersonale, intenzionalmente generata da almeno una delle due parti in contrapposizione e che si innesca con meccanismi ben precisi di vessazione e discriminazione;
c) quel tipo di stress «indotto» da alcuni particolari atteggiamenti e causalmente, o almeno concausal mente, fonte di varie reazioni di natura fisica e psicologica per chi lo subisce.
La risposta alla necessità di tali distinzioni è quindi soprattutto da ricercare nell'avvertita necessità di giungere a garantire o meno un equo ristoro di fronte a un'ingiusti zia subita.
II danno punitivo
È così che, sulla scia di tali pro nunce, anche il nostro ordinamento si sta man mano dirigendo verso il prototipo anglosassone del puni tive or exemplary damages e le nuove nomenclature che vanno co niandosi per giustificare il risarci mento di quei comportamenti particolarmente subdoli e vessatori, altro non sono che le mentite spo glie dietro le quali si nasconde il co siddetto «danno punitivo, che stenta tuttavia a essere a pieno ti tolo recepito per tale dal nostro or dinamento giuridico.
In altri sistemi giuridici (come quello della common law o anche quello tedesco)
l'istituto è invece ampiamente consolidato, allo scopo non solo di punire il colpevole per il suo malevolo comportamen to e di ricompensare la parte lesa, ma anche di perseguire una fina lità pedagogica, nell'intenzione di distogliere l'intera collettività da comportamenti socialmente dan nosi.
Esso principalmente consen te, secondo la discrezionalità del giudice, di attribuire al danneggia to un compenso superiore all'im porto del risarcimento che sarebbe altrimenti dovuto, quando quest'ultimo sia nel caso specifico palesemente inadeguato.
Ciò con indubbi risvolti pratico applicativi, facilmente intuibili.
Nel sistema giudiziario statuni tense, per esempio, il recepimento dei punitive or exemplary damages ha addirittura fatto sì che s'in sinuasse il principio per cui il quantum del risarcimento è commisurato alle condizioni economiche del soggetto responsabile.
Il nostro codice civile, viceversa, prevedendo quale conseguenza di un'azione illecita il risarcimento del danno e non anche l'arricchi mento del danneggiato, in fieri ne ga la possibilità di accoglimento del danno punitivo.
Tuttavia, da sempre, tale inammissibilità ha trovato compensazione attraverso le norme che disciplinano la fa coltà dei giudici di determinare l'ammontare del danno in via equitativa, nei casi in cui non sia possibile una precisa quantifica zione, ovvero per mezzo del primo comma dell'art. 96 c.p.c., che stabi lisce: «Se risulta che la parte soc combente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre alle spe se, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza».
DI DANIELA CANTISANI