05 febbraio 2014

Pausa pranzo sul posto di lavoro? In assenza di autorizzazione è reato


Integra il reato di violazione di domicilio la condotta del dipendente che, in assenza di espressa autorizzazione da parte del proprio datore, trascorra la propria pausa pranzo sul posto di lavoro in compagnia di terzi e per scopi estranei all'attività lavorativa.
Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 581, depositata il 9 gennaio 2013.
Nel caso di specie una dipendente di uno studio legale si è intrattenuta durante la pausa pranzo all’interno delle mura lavorative in compagnia di un terzo, e per fini estranei all’attività di impiego.
Il datore di lavoro, venuto a conoscenza dell’episodio, ha denunciato la dipendente nei confronti della quale è stato promosso un procedimento per il reato di invasione abusiva di edifici.
All’esito del giudizio di prime cure, l’imputata è stata condannata per il reato lei ascritto, il Tribunale ritenendo arbitraria la sua presenza sul luogo di lavoro durante la pausa pranzo in assenza di una specifica concessione in termini da parte del titolare.
La Corte d’appello, adita in sede di gravame, ha ritoccato in parte qua il verdetto di primo grado, riqualificando la condotta in esame nel reato di violazione di domicilio, ai sensi dell’art. 614, c.p..
A nulla è valsa l’argomentazione difensiva prospettata dai difensori dell’imputata, secondo cui il rapporto di impiego unito al possesso delle chiavi per fare accesso alla struttura rappresentavano elementi ostativi alla caratterizzazione illecita del comportamento incriminato.
La vicenda è stata, da ultimo, sottoposta al prudente vaglio dei giudici di legittimità, cui è stato chiesto di annullare la sentenza della Corte territoriale, con conseguente declaratoria di assoluzione dell’imputata.
Oltre a sollevare l’intervenuta prescrizione del reato, la ricorrente ha insistito nell’evidenziare, per i motivi già espressi, l’assenza dei requisiti strutturali dell’ipotesi delittuosa per cui vi era stata condanna.
La sentenza della Suprema Corte - sebbene nell’accertare l’avvenuta estinzione del reato per decorso dei termini di prescrizione - merita attenzione per la peculiarità della vicenda concreta ma, soprattutto, per le precisazioni che gli Ermellini, ad onta dell’annullamento, offrono quanto ai capisaldi della fattispecie delittuosa di cui si discute.
La Corte ha avuto cura di soffermarsi sull’ambito di applicazione del reato di violazione di domicilio osservando come questi debba, anzitutto, ritenersi integrato – giusto il disposto del primo comma dell’art. 614, c.p. – allorchè le intenzioni di chi si introduce nell’altrui domicilio siano accertate come illecite: l’illiceità del finalismo che muove il soggetto agente, invero, rende implicita la contraria volontà del titolare di esercitare lo ius exciudendi, con la conseguenza che nessun rilievo svolge la mancanza di clandestinità da parte dell’agente, il quale frequenti o si ritenga autorizzato a frequentare l’abitazione del soggetto passivo.
Nondimeno la norma codicistica - al comma secondo – prende in considerazione l’eventualità in cui detta intenzionalità illecita – ancorchè in origine assente - sopravvenga in un secondo momento, quando ormai il soggetto agente sia già presente all’interno dell’altrui domicilio: sotto questo profilo, dunque, la norma sanziona colui che si trattenga nel domicilio altrui contro l’espressa volontà del titolare che intenda escluderlo, che pure ne ammesso in precedenza la presenza.
Ebbene, sulla base di tali premesse, e con riferimento al caso di specie, gli ermellini hanno confermato la rilevanza penale della condotta dell’imputata, a nulla rilevando l’opposta erronea convinzione in ordine al tacito assenso datoriale ad ammettere la presenza in studio durante le ore di chiusura.
Ne consegue che il possesso delle chiavi e, dunque, la libertà di accedere al luogo di lavoro da parte del dipendente, non esime quest’ultimo dal chiedere una espressa autorizzazione affinchè possa restare sul posto di lavoro quando i relativi locali rimangano chiusi e inattivi, e tanto fermo restando il sindacato sulla natura illecita dei motivi che spingono il lavoratore a determinarsi in tal senso.
(Sentenza Cassazione penale 09/01/2014, n. 581)