Sono recenti due sentenze della Cassazione in materia di Privacy & Lavoro. La prima è relativa alla legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore dipendente per l’utilizzo non corretto del proprio PC aziendale e la seconda sanziona un datore di lavoro per un utilizzo indebito dell’impianto di videosorveglianza installato nel proprio supermercato.
Il lavoratore, nel primo caso di specie, è stato licenziato a seguito dell’utilizzo per finalità non lavorative del personal computer messo a disposizione dal datore di lavoro per l’espletamento delle proprie mansioni: il lavoratore tramite un programma di connessione peer-to-peer da lui installato, e-Mule, durante l’orario di lavoro scaricava materiale non autorizzato e in violazione dei diritti d’autore anche dai contenuti pornografici e procedeva ad acquisti personali su internet tramite siti web di vendite on-line.
Si precisa che, il provvedimento disciplinare in questione era già il secondo al quale era ricorso il datore di lavoro nei confronti del medesimo dipendente. Nel primo caso, sentenza del 26 Novembre 2013 n. 26397, il licenziamento era stato considerato non giustificato in quanto la Corte aveva ritenuto le motivazioni della contestazione quali generiche: rischio di compromissione della sicurezza informatica dell’azienda e utilizzo non autorizzato di e-Mule in violazione tra l’altro della policy aziendale e la contestazione al lavoratore di negare tale comportamento non corretto nonostante le evidenze. In questo caso l’azienda non aveva dimostrato anche la relativa navigazione in internet su siti non autorizzati, tra questi quelli dai contenuti pornografici per altro bloccati e gli acquisti personali on-line, essendo installato nella rete aziendale un firewall che bloccava gli accessi ai siti a luci rosse e che comunque tracciava la navigazione in generale sul web, ma si erano limitati a dimostrare il transito di alcuni file non autorizzati tramite un supporto esterno di memorizzazione dati.
Con la sentenza del 6 dicembre 2013 n. 27392, la Cassazione invece sancisce la legittimità del secondo licenziamento, provvedimento disciplinare “notificato” al lavoratore immediatamente al suo primo giorno di lavoro, dopo la sua reintegra, tramite lettera consegnata a mano. Nel caso di specie le motivazioni sono state considerate valide, in quanto l’azienda poneva in essere la contestazione relative alle “gravità delle violazioni, reiterate, massicce e continuative”, come cita la stessa sentenza, con particolare riferimento al contenuto del materiale scaricato e archiviato sul personal computer aziendale, files in violazione dei diritti d’autore e dai contenuti pornografici.
L’azienda inoltre contestava anche l’eccesso di tali attività compiute durante l’orario di lavoro e in totale violazione al c.d. Regolamento Informatico, che vietava in maniera chiara l’installazione e l’utilizzo di programmi non autorizzati in generale e soprattutto quelli di connessione peer-to-peer per finalità di sicurezza del sistema informatico aziendale, non che attività non per fini lavorativi quali la navigazioni su siti web di vendite on-line effettuando acquisti di natura personale sempre durante l’orario lavorativo. Tutte attività questa volta adeguatamente documentate.
Essendo venuto meno anche il relativo rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il suo dipendente, la Corte ha reputato legittimo questo secondo provvedimento di natura disciplinare ed ha condannato quest’ultimo anche al risarcimento delle spese processuali.
Diverso il caso di un datore di lavoro sanzionato con una ammenda per aver installato un sistema di videosorveglianza senza l’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro.
I fatti. Nel giugno 2012 il Tribunale di Lodi condanna il Datore di Lavoro alla pena di € 200,00 di ammenda pecuniaria per la violazione dell’art. 4, comma 2, L. 300/1970, c.d. Statuto dei Lavoratori, e alla relativa menzione di tale fatto nel proprio casellario giudiziale con sospensione condizionale della pena, per l’installazione nel proprio supermercato di un sistema di videosorveglianza costituito da n. 8 microcamere a circuito chiuso, alcune delle quali puntate sulle casse dove stazionano in maniera permanente alcuni lavoratori, il tutto senza la relativa autorizzazione, preliminare e obbligatoria, della Rappresentanza Sindacale Aziendale e in sua assenza della Direzione Territoriale del Lavoro, o come da altra sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, senza il consenso informato di tutti i lavoratori.
In seguito, il datore di lavoro chiede e ottiene approvazione dalla competenze DTL, presentando tutta la documentazione necessaria e relativa descrizione dell’impianto. Ottenuta tale autorizzazione, il datore di lavoro ricorre in Cassazione avverso il provvedimento di cui prima, chiedendo la cancellazione del reato dal proprio casellario giudiziale sostenendo di non essersi avvalso di nessuna concessione di benefici e che avendo ricevuto autorizzazione del proprio sistema di videosorveglianza dalla DTL, questa dimostrava che non sussisteva l’atto criminoso di violazione del Codice Privacy previsto dall’art. 179 (combinato con l’art. 114 e 171): condotta criminosa rappresentata dall’installazione di impianti audiovisivi idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori qualora non vi sia stato consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati: Cassazione Sezione IlI, 17 aprile 2012 n. 22611) o permesso dall’Ispettorato del lavoro.
Il ricorso è infondato, così sentenzia la Corte. L’impianto installato in assenza di relativa autorizzazione costituisce anche senza la sua entrata in funzione un atto criminoso. Stesso principio rimane applicabile anche qualora la DTL abbia in seguito verificato la relativa idoneità, poiché trattasi di reato di pericolo. La norma sanziona a priori l’installazione, prescindendo dal suo utilizzo o meno. Si ricorda che per le stesse ragioni è vietata anche l’installazione di finte videocamere ed è obbligatoria anche la segnalazione della videocamera “rotta” e/o in manutenzione.
In merito invece alla richiesta di non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale come previsto dall’art. 175 del Codice Penale, la richiesta non è stata accolta proprio in considerazione dell’esiguità della sanzione amministrativa pari a soli € 200,00 e dell’applicazione della sospensione della pena.
Pertanto, il provvedimento del ricorrente è stato dichiarato illegittimo ed è stato condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.