30 gennaio 2011

Riflessioni primi due commi art. 6 L. 604/1966 dopo novella collegato lavoro

Antonio Dibitonto - Laura Petrini
Cattedra di diritto del Lavoro della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo
La legge N° 183 del 2010 (collegato lavoro), entrata in vigore il 24.11.2010, ha modificato i primi due commi dell’art. 6 della legge N° 604 del 1966 nei seguenti termini: Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
È evidente, dall’esame letterale della norma, che la novella, per ciò che riguarda il primo comma, non ha sostanzialmente mutato il modo ed i termini per impugnare: “qualsiasi atto scritto” nel termine di 60 giorni “dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale”. Per inciso, sui termini per impugnare, la Cassazione Sezioni Unite, con la pronunzia N° 8830 del 14.04.2010, aveva stigmatizzato un precedente orientamento affermando che
Absit iniuria verbis ma la posizione, ad avviso degli scriventi, non può essere condivisa in quanto il testo normativo prima della novella del collegato, allorché stabiliva che: Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore … affermava la necessità di certezza sulla “stabilità” dei risultati dell’atto espulsivo! È impensabile, infatti, che la situazione di incertezza sul consolidarsi dell’effetto espulsivo del licenziamento si dovesse stabilizzare solo dopo cinque anni. E tutto ciò a tacere di quei licenziamenti nulli per i quali il termine di prescrizione non opera).

La pronuncia delle Sezioni Unite, ad ogni modo, oggi è ormai fortemente ridimensionata dalla legge N° 183 del 2010 la quale ha introdotto, è qui sta una delle novità sostanziali, l’inefficacia dell’impugnazione se a questa non segue nel termine di 270 giorni il deposito del ricorso in cancelleria o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.
I problemi interpretativi, però, non mancano. Il primo: a quali fattispecie si applica la riforma?
Alcuni primi interpreti si sono chiesti, infatti, se la novella si applica solo a quelle fattispecie in cui il licenziamento perviene al lavoratore dopo il 24.11.2010 ovvero anche a quelli che giungono nella sfera di conoscenza del lavoratore prima.
La loro soluzione è stata che il problema non si pone per quei licenziamenti intimati dopo: la novella si applica; e si applica pure per quelli intimati prima ma pervenuti dopo poiché il licenziamento è atto recettizio.
Ad avviso degli scriventi, però, la questione è più complessa e non sta tanto nel momento in cui il licenziamento viene intimato, rectius, giunge nella sfera di conoscenza del destinatario – e, comunque, condividono la soluzione sopra riportata – ma, piuttosto, nel momento in cui l’impugnativa di licenziamento, anch’essa atto recettizio, giunge a destinazione. E, dunque, bisogna vedere se la riforma si applica a quelle fattispecie in cui i licenziamenti intimati e pervenuti prima del 24.11.2010 sono impugnati e l’impugnazione giunge a destinazione dopo l’entrata in vigore della novella (se giunge prima il problema non si pone: la nuova norma non si applica in quanto non sembra essere retroattiva).
Gli scriventi propendono per l’affermativa. In primo luogo, infatti, va osservato che il collegato pone oneri e tempi per il loro assolvimento, solo in capo al lavoratore che intende impugnare l’atto espulsivo: e diviene inefficace se l’impugnazione… non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso … o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato…. Si ritiene, quindi, che l’atto cui si debba tener presente per valutare se la novella si applichi o meno alla fattispecie sia l’impugnativa e non il licenziamento. Licenziamento ed impugnativa, infatti, ad avviso degli scriventi non rappresentano un tutt’uno ma, sono fattispecie separate e distinte. A conforto solo una riflessione: il licenziamento una volta giunto nella sfera di conoscenza del lavoratore, ha esaurito i suoi effetti tipici. Vera la prima considerazione torna, poi, in gioco la natura recettizia dell’impugnativa che produce effetti solo nel momento in cui giunge nella sfera di conoscenza del datore di lavoro. Dunque, soluzione affermativa.
Per le fattispecie, infine, in cui licenziamento ed impugnativa abbiano spiegato i loro effetti tipici prima del 24.11.20101, continua a valere il termine prescrizionale di cinque anni per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
Altro problema interpretativo è stabilire qual è il dies a quo per il computo dei 270 giorni. La norma dice che <> e che <>. In altre parole: i 270 giorni decorrono dal momento in cui il lavoratore impugna il licenziamento ovvero dal decorso dei 60 giorni per l’impugnativa? Non è affatto chiaro. Il lessico, tenuto conto dell’aggettivo usato, “successivo”, indurrebbe a ritenere che i 270 giorni inizierebbero a decorrere “dopo” i 60 previsti per l’impugnativa. Gli scriventi, però, non sono convinti di tale conclusione che, in un’ottica difensiva del lavoratore, è peraltro troppo rischiosa. Ritengono, perciò, di dover accedere ad un’interpretazione più prudente, seppur più restrittiva, ossia, che i 270 giorni cominciano a decorrere dalla data dell’impugnativa del licenziamento.
Nessun dubbio, poi, sorge sull’onere di avviare l’azione giudiziale nei 60 giorni dal rifiuto della conciliazione o dell’arbitrato ovvero dal mancato accordo se accettati.
Sui modi di impugnare, come cennato in apertura, il collegato lavoro formalmente nulla ha innovato mantenendo fermo che il licenziamento deve essere impugnato con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale.
Di fatto, però, ha svuotato di contenuto l’impugnativa a mezzo della richiesta di conciliazione. Perché? E’ semplice. Se impugno con la richiesta di conciliazione non ho più a disposizione i 270 giorni per proporre il ricorso giurisdizionale in quanto sarò costretto a depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale nei 60 giorni dal rifiuto della conciliazione ovvero dal mancato accordo se accettata! Impugnare con la richiesta di tentativo di conciliazione, quindi, in caso di esito negativo, andrebbe inutilmente a ridurre i tempi per predisporre la difesa in sede giurisdizionale.
Va affrontato, infine, ancora un problema, ossia il venir meno del tentativo obbligatorio di conciliazione (rimane obbligatorio solo quello di cui all’art. 80 co. 4 del D. Lgs. N° 276 del 2003) fa rivivere o meno la norma di cui all’art. 5 L. 108/90 che prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ambito della sola tutela obbligatoria? Si tratta di vedere, in buona sostanza, se il D.Lgs. 31.03.1998, N° 80, modificato dal D.Lgs. 29.10.1998, N° 387, che ha reso obbligatorio il tentativo di conciliazione stragiudiziale, ha operato o meno una abrogazione (esplicita o tacita) delle norme concernenti i tentativi di conciliazione obbligatori e, nella specie, quello di cui all’art. 5 L. 108/90 in esame.
La dottrina sul punto non è univoca ma le posizioni sono sostanzialmente due. La prima, facendo leva sul disposto dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile ritiene che l’art. 5 L. 108/90 sia stato abrogato tacitamente. La seconda, invece, facendo leva sul principio lex posterior generalis non derogat priori speciali ritiene che la norma de qua non sia stata abrogata e ciò anche alla luce del fatto che nell’art. 43 del D.Lgs. n. 80/1998, allorché vengono indicate le norme abrogate, non si fa menzione dell’art. 5 L. 108/90: lex ubi voluiti dixit, ubi noluit tacuit!
Gli scriventi, pertanto, nell’aderire a questa seconda soluzione, ritiengono che il tentativo previsto dall’art. 5 L. 108/90 con l’entrata in vigore del Collegato debba obbligatoriamente svolgersi in quanto mai abrogato; e ciò anche in una logica di prudenza nella difesa del lavoratore licenziato.