17 settembre 2011

Call Center: A rischio non è solo il lavoro in Italia ma anche la privacy

Vite in standby nei call center di tutta Italia. Di quest’universo composto, per lo più, da donne under-40 laureate e precarie, hanno parlato film, documentari, libri e inchieste giornalistiche. Guadagnano meno di mille euro al mese. Fanno orari massacranti. Eppure rischiano di vedersi soffiare il posto da «colleghi» albanesi, romeni e tunisini che parlano un italiano più stentato ma costano molto meno. E l'ultima frontiera del precariato, la delocalizzazione dei call center.

A mettere a rischio il settore sono i repentini fallimenti e cessioni di rami d’azienda dei call center in outsourcing. «La Slc-Cgil ha chiesto di legare i contratti alle commesse – spiega la Treossi - cosicché se l’azienda fallisce o viene ceduta, i lavoratori continueranno a svolgere le stesse mansioni, ma saranno pagati da chi subentra».

IL «DUMPING» SALARIALE - Dietro alcuni fallimenti o cessioni, però, non si nasconde la crisi economica. Le società preferiscono delocalizzare il servizio in Paesi dove il salario costa meno (Albania, Romania e Tunisia appunto). Bisogna inserire una clausola sociale contro il dumping salariale nel contratto nazionale perché questa gara a ribasso non tutela né l’occupazione né la qualità del servizio.

In effetti, a rischio non è solo il lavoro in Italia (più costoso che altrove), ma anche la privacy. La nostra normativa è molto garantista sul trattamento dei dati personali ma non possiamo certo sapere se lo siano anche quelle albanesi, tunisine o romene. E non si tratta di un problema minore: molto spesso, al telefono forniamo dati sensibili come il numero della carta di credito o informazioni che riguardano la nostra salute».