Risarcimento pieno al dipendente depresso un pò per il lavoro, un pò di suo. Se alla condizione di avvilimento dell'individuo contribuiscono anche i motivi di lavoro, l'imprenditore è tenuto ad accollarsi per intero il danno biologico patito dal dipendente.
La vicenda. I giudici di piazza Cavour hanno condannato una società di spedizioni a pagare 180 mila euro a un dipendente caduto in una grave crisi depressiva per essere stato prima dequalificato e poi messo alla porta. Lo svolgimento di mansioni al di sotto della sua competenza lo aveva portato a una pesantissima cura farmacologica e, durante lo stato di malattia, si era visto licenziare.
Il Tribunale non se l'era sentita dì attribuire tutta la responsabilità all'imprenditore, visto che la consulenza tecnica aveva evidenziato una certa predisposizione del soggetto, affetto da una sindrome ansiosa e da obesità. Alla fine è risultato che il danno alla salute, corrispondente a un 50% di invalidità, poteva essere imputato solo per metà a cause lavorative. Quindi, ad avviso dei giudici dì merito, il datore di lavoro doveva risarcire solamente il 50% di quel danno.
Il ragionamento della Corte. La «condivisione» della responsabilità tra dipendente e datore di lavoro, però, non è piaciuta ai giudici di piazza Cavour che hanno richiamato il principio fondamentale in tema di responsabilità civile, ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice penale. In pratica, quando il danno - vuoi per condizioni ambientali oppure per fattori naturali - avviene indipendentemente dal comportamento «imputabile all'uomo», l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato per intero da ogni colpa nell'evento; se, invece, quelle condizioni oggettive non possono dar luogo, senza l'apporto umano, al danno, l'autore del comportamento è interamente responsabile di tutte le conseguenze che derivano dall'evento lesivo.
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