31 gennaio 2013

Call Center : Richiesta per il mantenimento dei livelli occupazionali nel settore dei call-center out-bound.

Catania 31 gennaio 2013
Richieste avanzate al PREFETTO DI CATANIA nel corso della manifestazione odierna

Delocalizzazioni:
Intervenire presso il Ministero dell’Interno ed il Ministero delle attività produttive affinché in materia di concessioni governative vengano inseriti appositi vincoli per il trattamento dei dati sensibili dei cittadini italiani trattati all’estero, in maniera tale che siano assicurati adeguati livelli di tutela. In tema di trattamento dei dati personali dei cittadini italiani , così come le banche dati relative a liste di utenti italiani, che sono in possesso dei call center localizzati al di fuori del territorio nazionale e/o degli stati membri dell’Unione Europea, chiediamo che venga vietato quando l’ordinamento del paese di destinazione o di transito dei dati non assicura un livello di tutela delle persone adeguato. Considerato che quotidianamente e per la volontà delle aziende committenti titolari di concessioni governative attraverso il processo di delocalizzazione delle attività di call center verso paesi terzi all’Unione Europea ( Albania, Bosnia, Croazia, Macedonia, Marocco, Moldavia, Tunisia, etc.) è continuo e che i livelli di tutela dei dati personali non vengono assicurati si propone l’inserimento di un apposito vincolo nelle concessioni governative.
A tal fine si allega parere Ministero dell’ Interno n. 11001/133 (2).
Mantenimento livelli occupazionali
A causa dei processi in atto, nel territorio della Provincia di Catania, laddove sono stati occupati con successo migliaia di lavoratori impiegati nel lavoro dei call center si rischia il tracollo occupazionale. Per tanto si chiede che vengano contattate le grandi committenti del settore delle telecomunicazioni (Teletù, Tim, Wind , Vodafone, Tre), dell’energia elettrica (Enel) delle pay tv (Mediaset Premium e Sky) e dei servizi (INPS) affinché vengano quantomeno riconfermati , a parità di condizioni contrattuali e nell’assoluto rispetto dei parametri di qualità, gli stessi volumi di lavoro del 2012 e ciò al fine di mantenere gli stessi volumi occupazionali.
Appalti ed occupazione
L’ASP 3ha indetto (GU/S S81 del 26/4/2012 132898-2012-IT) una gara di appalto per la fornitura del Servizio di Call Center e fornitura software Sovracup per la gestione delle prenotazioni di prestazioni sanitarie territoriali ed ospedaliere per la provincia di Catania. L’esito e l’assegnazione di tale gara potrebbe determinare l’occupazione di un buon numero di lavoratori. Si chiede di intervenire affinché venga reso noto l’eventuale esito della gara per la pronta occupazione dei lavoratori.
Note particolari sulle attività commerciali dei lavoratori a progetto
Nelle attività di out-bound da anni operano lavoratori che man mano hanno acquisito una professionalità tale da poter assicurare l’assoluto rispetto e la relativa soddisfazione del cliente contattato. Tali standard sono stati acquisiti e perfezionati nel corso degli anni e ciò con il progredire della legislazione vigente in materia di rispetto del consumatore. Tali standard adeguati al rispetto dell’utente consumatore non sono facilmente replicabili soprattutto presso i paesi non appartenenti alla Unione Europea nei quali la legislazione potrebbe non essere in linea e/o inadeguata rispetto ai nostri standard.

   Il Segretario Generale NIdiL-CGIL: Giuseppe  Oliva 
  Il Segretario Confederale CGIL: Giovanni Pistorio  





Vodafone Italia risponde a Massimiliano Dona dell’Unione Nazionale Consumatori

Parla Vodafone:
Abbiamo letto l’intervento di Massimiliano Dona, Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori e riteniamo necessarie, per amor di verità, alcune puntualizzazioni.

Precisiamo, innanzitutto, che la nostra “campagna saldi” consiste in una serie di significativi sconti su un ampio portafoglio di terminali, peraltro con varie meccaniche di sconto.

Questa duplice varietà (di modelli e di meccaniche) è stata studiata proprio per soddisfare il maggior numero di diverse esigenze dei clienti.

Le meccaniche cui facciamo riferimento sono le seguenti:

1) Doppio beneficio per tutti (nuovi e vecchi clienti), ovvero anche con solo la Sim senza nessuna opzione/piano mandatorio è disponibile:  (a) sconto secco di 30 euro sul prezzo di acquisto + (b) 30 euro di ricarica omaggio (modelli inclusi: Samsung Galaxy Y, Vodafone Sonic, Huawei Ascend G300);
2) Sconto rata su telefono a rate ricaricabile per tutti (nuovi e vecchi clienti), ovvero anche con solo la Sim senza nessuna opzione/piano mandatorio e’ disponibile sconto fino a 150 euro sull’acquisito a rate di una dei seguenti modelli: LG optimus L3, Nokia Lumia 610, Sony Xperia P, Nokia Lumia 820)
3) Sconto secco per chi passa a Vodafone: anche con solo la sim senza nessuna opzione/piano mandatorio, chi passa a Vodafone puo’ avere uno sconto secco fino a 100 euro sull’ acquisito dei seguenti modelli: Blackberry 9320, Nokia Lumia 610, Huawei Ascend P1
4) Sconto per tutti su rate telefono legati a Relax (questa è l’unica modalità legata ad un piano tariffario): chi prende Relax ha uno sconto sulle rate dei telefoni fino a 150 euro (modelli inclusi: Nokia Lumia 610, Nokia Lumia 820)
5) Sconti su premi VodafoneYOU: Riduzione per tutti dei punti necessari per avere Nokia Lumia 610, Huawei Ascend G300

Quanto alla scritta definita ‘invisibile’ dall’Unione Nazionale Consumatori, il video sembra prendere in considerazione un’affissione in una strada di grande transito dove la cornice dell’affissione stessa copre la scritta con i dettagli a pie’ di pagina. Se invece si prendono in considerazione le affissioni in citta’ e nei  punti vendita, ci si rende conto di quanto l’informativa sia ‘visibile’ e a disposizione del pubblico.
Infine se l’offerta in quanto tale appare non vantaggiosa, riteniamo che oggi il mercato della telefonia mobile in Italia e’ ritenuto il piu’ concorrenziale d’Europa e quindi sara’ il cliente a definire la sua appetibilità, con semplici raffronti con le altre offerte concorrenziali sul mercato.

Lo spot di Vodafone è ingannevole...?
Sarà l’Autorità Antitrust a stabilire se la pubblicità di Eni, vero tormentone di questi giorni, è ingannevole.

E’ quanto dichiara Massimiliano Dona, Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori (UNC), annunciando che l’associazione ha denunciato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato lo spot Vodafone 250+250.

Per quanto riguarda lo spot Vodafone -spiega Dona- conosciamo ormai tutti la campagna ‘Vodafone 250+250′ che ha per protagonista l’orso di nome Bruno che, danzando sul ghiaccio, lascia credere ai consumatori che la compagnia telefonica offra 250 minuti e 250 sms verso tutti al prezzo di 9,90 euro al mese: la nostra denuncia è motivata dal fatto che la pubblicità non spiega che l’offerta è riservata a chi passa a Vodafone da un altro operatore e che dopo due anni il prezzo diventerà di 14,90 euro.

E poi -incalza Dona- lo spot Vodafone ci è sembrato gravemente scorretto nella misura in cui i minuti offerti non sono reali trattandosi di ‘scatti anticipati di 30 secondi’, una vera bufala per i consumatori”.”

Appresa la notizia delle nostre segnalazioni all’Autorità -afferma il Segretario generale Vodafone ha persino dichiarato di aver già interrotto la campagna ’250+250′.




Controlli difensivi su telefonate del lavoratore? Occorre l'accordo con il sindacato

Una delicata questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda l’ammissibilità del controllo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore in relazione a quanto previsto dall’articolo 4 della Legge 20 maggio 1970, n. 300.

Tale norma vieta, al primo comma, l’uso degli impianti audiovisivi e delle altre apparecchiature aventi finalità di controllo a distanza dell’attività lavorativa e, al secondo comma, disciplina le modalità di adozione di impianti ed apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive o dalla sicurezza del lavoro, subordinandola ad un accordo con le R.S.A. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro.

La Corte di Cassazione, con sentenza 17 luglio 2007, n. 15982, ha chiarito che l’articolo 4 dello Statuto “fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore….sul presupposto - espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomina nello svolgimento del lavoro”.

Nella pronuncia in esame la Suprema Corte ha, inoltre, osservato che la garanzia procedurale prevista per impianti ed apparecchiature ricollegabili ad esigenze produttive contempera “l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi”. La possibilità di tali controlli si ferma, dunque, dinanzi al diritto alla riservatezza del dipendente, al punto che la pur insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti “non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale allineamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore. Tale esigenza…non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino…l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettore del lavoro”.

La Corte di Cassazione aveva, in un primo momento, ritenuto i “controlli difensivi” legittimi in ogni caso, a prescindere cioè dal loro grado di invasività (Cass. 3 aprile 2002, n. 4746).

Con una successiva pronuncia la Corte ha tuttavia superato tale impostazione, affermando che anche il controllo difensivo richiede il vaglio della procedura contrattuale con le organizzazioni sindacali o autorizzativa dell'Ispettorato del lavoro, essendo “un controllo c.d. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’articolo 4 comma secondo” (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375).

Tale nuovo orientamento è stato da ultimo confermato dalla Corte con la pronuncia 1° ottobre 2012, n. 16622 (“In tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dal comma secondo dell’articolo 4 della Legge n. 300/1970 (espressamente richiamato anche dall’articolo 114 del D.lgs. 196/2003 e non modificato dall’articolo 4 della legge 547/1993, che ha introdotto il reato di cui all’articolo 615 ter del c.p.) per l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli cosiddetti “difensivi”, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso”).

Non rientra peraltro nel campo di applicazione dell’articolo 4, il controllo posto in essere dal datore di lavoro sulle strutture informatiche aziendali, qualora l’attività di controllo prescinda dalla sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti e sia, invece, unicamente diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere.

Tale principio è stato recentemente affermato dalla Corte di Cassazione in un caso di “controllo difensivo” del datore di lavoro che non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma era destinato ad accertare un comportamento dei dipendenti che poteva porre in pericolo la Società (Cass., Sez. lavoro, sentenza 23 febbraio 2012, n. 2722).

Nel caso affrontato dalla Suprema Corte, il datore aveva compiuto il suo accertamento ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addossato al dipendente, quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva. Il datore di lavoro aveva posto in essere un’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di comportamenti illeciti posti in essere.

Per tali ragioni il “controllo difensivo” è stato ritenuto estraneo al campo di applicazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, essendosi verificato un comportamento che poneva in pericolo la Società. In tal caso entrava in gioco il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, costituito non solo dal complesso dei beni aziendali ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico. Tale situazione è stata dunque ritenuta non rientrante nel campo di applicazione dell’articolo 4 dello Statuto, che esclude dai controlli vietati quelli aventi ad oggetto la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro.

In conclusione, alla luce del quadro giurisprudenziale sopra rappresentato, è prospettabile quanto segue:

Nel caso in cui il controllo del datore di lavoro avvenga in forma occulta e non sia cioè rilevabile dal lavoratore, il quale subirà un controllo a distanza avente unicamente ad oggetto l’attività lavorativa, la procedura sarebbe vietata dal primo comma dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
Nella differente ipotesi in cui la procedura abbia, tra i propri fini, quello primario di prevenire e/o proteggere la sicurezza dell'azienda, delle sue informazioni e file e, soltanto in via secondaria e sussidiaria, quello di consentire pure il controllo della prestazione lavorativa, il controllo potrebbe essere consentito, ma nel rispetto delle modalità previste dal secondo comma dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (cioè con un accordo con le R.S.A. o specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro).
La procedura potrebbe essere invece legittima e non rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 dello Statuto qualora non riguardi invece in alcun modo l'attività lavorativa ma sia unicamente diretta ad accertare, seppur in modo occulto, eventuali condotte illecite del lavoratore e, in particolare, risulti indispensabile per la tutela del patrimonio aziendale.
A quest’ultimo riguardo si deve peraltro rilevare la difficoltà operativa di predisporre una procedura di controllo che, a priori, escluda l'attività lavorativa per concentrarsi esclusivamente sugli illeciti.

( Nota di Francesco Ferrara e Francesco Pagliari)

Wind Retail : SLC-CGIL Catania “Comportamento indecoroso e lesivo della dignità e dei diritti dei lavoratori”

COMUNICATO SINDACALE
La Segreteria Provinciale di Catania SLC-CGIL  in continuazione col lavoro sindacale finora svolto, a seguito delle numerose segnalazioni provenienti dai lavoratori di Wind Retail  ed in considerazione del silenzio dell’azienda che si protrae da mesi a fronte  delle numerose richieste di dare corso ad incontri territoriali finora disattese, rilascia il seguente comunicato.
L’atteggiamento propositivo, costruttivo e responsabile del sindacato purtroppo non ha trovato pari atteggiamento da parte dell’azienda.
Le lavoratrici ed i lavoratori di Wind Retail da mesi sono costretti a lavorare in condizioni non sempre rispettose dei contratti nonostante le segnalazioni e le pressioni sindacali.
Perseverano atteggiamenti “da mero comando” da parte dei responsabili che certamente non alimentano un clima adeguato ad un moderno ed efficiente luogo di lavoro.
La conduzione del lavoro nei punti di vendita Wind Retail ed in questo ambito delle risorse, risulta essere espressione di  un modus operandi tipico di una “gestione padronale”, troppo spesso fuori linea rispetto a procedure ad accordi  ed al contratto nazionale di settore.
Le responsabilità definite nell’ambito della struttura aziendale risultano assolutamente latitanti rispetto agli oneri a loro attribuiti  delegando a figure territoriali, non sempre formalmente riconosciute, il loro completo operato agevolando l’arbitrarietà e la strumentalizzazione nella gestione dei punti vendita.
Si condanna altresì l’atteggiamento aziendale in merito agli spostamenti tra sedi diverse dei lavoratori, spesso obbligando gli stessi, senza il giusto preavviso ed abusando della norma “dei 50 km”.
Per molti mesi, il confronto serrato, propositivo e continuo tra l’azienda ed il sindacato ha portato a migliorie ed efficentamento, ma l’atteggiamento di chiusura aziendale porterà a momenti di tensione che non sono utili alle controparti.
Pertanto si auspica che l’azienda fissi una serie di incontri territoriali al fine di attivare il processo relazionale tra la Wind Retail s.r.l. e la SLC-CGIL Catania.         
Il Segretario Generale SLC CGIL
Davide Foti

29 gennaio 2013

Tariffa unica, Telecom Italia si difende dalle accuse

Telecom risponde alle Associazioni dei consumatori, affermando che in realtà la tariffa unica offrirà un risparmio concreto a tutti gli utenti.
Qualche giorno fa l’annuncio di Telecom Italia di introdurre una tariffa unica per chiamate verso la linea fissa e mobile ha scatenato un vespaio di polemiche, alimentate soprattutto dalle varie Associazioni dei consumatori. Non si è fatta attendere la risposta della compagnia di telefonia fissa, che ha rassicurato l’utenza sui paventati aumenti.
“È vero – ha fatto sapere in una nota Telecom Italia – la tariffa urbana base di Telecom Italia aumenta del 163%, ma è ampiamente compensata dalla riduzione delle tariffe verso i cellulari nazionali e soprattutto si fissa il principio della fascia unica di prezzo, consentendo un risparmio sulla spesa telefonica proporzionato al volume e alla tipologia dei consumi. L’obiettivo principale è una sorta di riscossa del telefono fisso sui cellulari, rendendo conveniente l’uso del terminale di casa per chiamare gli utenti mobile”.
Telecom ha, inoltre, respinto le accuse di aver ritoccato al rialzo le tariffe del telefono fisso, di recente finite sotto la lente dell’OFCOM. “Riguardo alla manovra complessiva – si è difesa Telecom – va innanzitutto sottolineato che a partire da aprile il prezzo unico delle telefonate da rete fissa sarà di 5 centesimi di euro al minuto a fronte degli attuali 9,90 verso i cellulari, e 1,90 centesimi verso tutti i fissi nazionali (chiamate locali e interurbane). L’importo dello scatto alla risposta scende a 5 centesimi a fronte degli attuali 7,94, con una significativa riduzione del 37%”.
La compagnia telefonica ha, inoltre, messo in evidenza i benefici della tariffa, ricordando che offre una “maggiore libertà ai clienti sul traffico fisso-mobile, il cui prezzo al minuto viene dimezzato, con l’obiettivo di rendere più conveniente l’utilizzo del telefono di casa per le chiamate verso i cellulari e assecondare il trend di continua diffusione della telefonia mobile”.
Per dare un’idea più chiara del risparmio che si può ottenere grazie alla tariffa unica, Telecom ha fatto un esempio: un cliente che effettua 30 telefonate al mese (equamente suddivise verso numeri fissi e mobili) della durata di tre minuti ciascuna, avrà una spesa di 6 euro anziché 7,69 euro, con un risparmio che, a detta di Telecom, ammonta al 22%.
“Il prezzo di 5 centesimi di euro verso tutti i fissi e i cellulari – ha, quindi, concluso l’azienda – risulta molto più conveniente rispetto ai 12 centesimi previsti dai profili base di Vodafone, Wind e TIM, ed anche ai 10,08 centesimi di 3. La convenienza del fisso di Telecom Italia rispetto a Vodafone, Wind e TIM sta anche nello scatto alla risposta: 5 centesimi contro 18″.


Tariffe telefonia, Movimento dei Consumatori contro Telecom

Dal prossimo primo di aprile, come annunciato nei giorni scorsi dall’operatore di telefonia nazionale, Telecom Italia introdurrà una tariffa unica per le telefonate verso i fissi e i cellulari, con conseguente aumento del canone. Come prevedibile, la novità ha provocato un vespaio di polemiche, a cominciare dal Movimento Difesa del Cittadino (MDC), che invita Telecom a fare marcia indietro.

Con la nuova tariffa unica, le associazioni dei consumatori stimano che le chiamate verso i fissi costeranno 5 centesimi al minuto, mentre gli scatti alla risposta 7,94 centesimi contro i 5 attuali. In particolare, il prezzo al minuto per le chiamate verso i fissi crescerà da 1,90 a 5 centesimi, mentre quelle fisso-mobile passeranno da 1,90 a 5 centesimi. Complessivamente – illustrano le varie associazioni – il canone Telecom Italia lieviterà da 16,64 a 17,40 euro, andando a colpire soprattutto le utenze anziane e le fasce più deboli della popolazione.

Fra le associazioni più attive su questo tema c’è il MDC, che si è rivolta all’Autorità garante per le comunicazioni (Agcom), sottolineando come, di fatto, “la proposta della Telecom rischi di essere fortemente lesiva dei consumatori, soprattutto se appartenenti alle fasce deboli”.

Come si legge nella nota diffusa dal Movimento, “la crisi delle famiglie alle prese con aumenti sistematici delle bollette […] non può essere completamente ignorata nelle telecomunicazioni. Lo dimostra l’ultimo Rapporto dell’Autorità delle comunicazioni inglese (OFCOM) secondo cui proprio l’Italia è il paese che ha registrato i maggiori aumenti nella telefonia fissa (+ 22% rispetto agli USA e altri Paesi UE)”.

Secondo l’associazione, la scelta della nuova tariffa unica dovrebbe essere facoltativa, a discrezione, cioè, dell’utente. “Chiediamo subito una moratoria degli aumenti preannunciati da Telecom – fanno sapere dal MDC – e l’urgente convocazione di un tavolo di confronto tra azienda e delle associazioni dei consumatori da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni”.



Call Center: Il presidente di Assocontact risponde a Grillo che aveva parlato di "non-lavoro"

“Affermazioni gravi che screditano il settore”. Luca D’Ambrosio, presidente di Assocontact, risponde così alle parole di Beppe Grillo, leader del Movimento a  5 Stelle, che aveva definito il lavoro nei call center un “non-lavoro”. Secondo D’Ambrosio l’affermazione di Grillo “è offensiva nei riguardi delle 80.000 famiglie che vivono di questo”.

“È offensivo della serietà e della competenza che i lavoratori mettono a disposizione dei cittadini che, quando hanno un problema chiamano e magari se la prendono anche con chi risponde al telefono – sottolinea il presidente di Assocontact in una lettera aperta indirizzata a Grillo -  Certo, probabilmente vivendo una vita agiata come la sua non avrà mai avuto la necessità di chiamare personalmente per un problema al cellulare, alla linea fissa di casa, per la corrente elettrica, o magari solo perché voleva acquistare un film”.

“Se lo avesse fatto si sarebbe accorto che chi le rispondeva faceva un lavoro moderno ed utile, un lavoro che sta sostituendo man mano le migliaia di posti di lavoro che ogni anno vengono persi per via dell’informatizzazione e del web”.

D’Ambrosio ricorda a Grillo che “se avesse davvero a cuore il nostro paese forse prima di sparar sentenze avrebbe cercato di capire che il nostro lavoro è uno dei pochi che, pur faticosamente, sta reggendo questa crisi terribile.”.

“Ma come hanno fatto tutti gli altri politici prima di Lei – evidenzia D’Ambrosio - ha scelto di parlare dei call center solo perché c’è stato un film che li ha demonizzati anni fa e adesso fa comodo ricordarli come erano allora e non per cosa sono oggi, perché nel primo caso si fa notizia mentre nel secondo c’è un’opportunità da cogliere e, ovviamente, le opportunità non fanno notizia”

“Forse è per questo che il governo, come lei impegnato solo su questioni estetiche, non solo non è mai riuscito a valorizzare un comparto importante, ma lo ha addirittura penalizzato riempiendolo di tasse e balzelli che lo rendono sempre meno competitivo, come se non bastasse avere un costo del lavoro che incide fino al 70% dei ricavi”.

“Ma forse i settori industriali, più modernamente definiti labour intensive, quelli che creano primo impiego ed occupazione, quelli che formano i nostri giovani ad un impiego futuro, non Le interessano, come non interessavano al nostro governo in precedenza”.

“Tutti troppo presi a far politica per voler davvero risolvere i problemi di questo nostro paese – conclude il numero uno di Assocontact - D’altronde fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce”.
di Federica Meta



Ibarra: "Infostrada a rischio chiusura senza correzioni sul fisso"

Nella telefonia fissa "occorre un intervento per correggere lo squilibrio competitivo". Lo ha detto il numero uno di Wind,  Maximo Ibarra, in un'intervista su Repubblica aggiungendo che "sul mobile stiamo andando molto bene ed infatti continuiamo a crescere nonostante la crisi, come clienti e come quota, tanto che puntiamo alla leadership del segmento residenziale entro la fine del 2013. Questo vuol dire semplicemente che sappiamo lavorare. Ma vuole anche dire che sulla telefonia fissa, le cose non vanno. E se le cose stanno così allora non ci restano alternative: dovremo lasciare e chiudere Infostrada. E senza Infostrada, che insieme a Wind ha investito 900 milioni di euro soltanto nell'ultimo anno, gli effetti sarebbero negativi per i consumatori e per il Paese". "Il problema è che in Italia - ha spiegato l'ad -  abbiamo un costo di unbundling, l'affitto che paghiamo a Telecom Italia per l'ultimo miglio, che è attualmente di 9,28 euro al mese, tra i più alti in ambito Ue"

Ibarra spiega che "questo valore crea a noi e a tutti gli altri operatori alternativi forti difficoltà di cassa." "Il nostro margine di gestione operativa non ha mai superato il 15-16% (mentre per l'incumbent va oltre il 43%) - spiega il numero uno di Wind - se da questa voce togliamo gli investimenti che stiamo realizzando sulla rete per accrescere la nostra copertura, già oggi del 62% della popolazione italiana, andiamo in negativo: la rete fissa per noi brucia cassa. E questo dopo aver pagato una bolletta a Telecom Italia che oggi è di 500 milioni netti di euro l'anno, tanto che siamo il loro miglior cliente". Secondo Ibarra, "basterebbe abbassare almeno di un euro il costo mensile dell'affitto di una linea per recuperare 70 milioni. Si tratta di una cifra che permetterebeb a Wind ci permetterebbe di non bruciare più cassa in Infostrada".

Circa un eventuale accordo tra Telecom e Cassa Depositi e Prestiti, "il discrimine - ha messo in evidenza Ibarra - è nella trasparenza e nella parità di accesso. Tutto il resto è secondario. Siamo pronti a partecipare, anche conferendo i nostri asset in fibra, se si andrà in questa direzione. O anche a essere semplici affittuari di una società Telecom-Cdp. Dipende da cosa ci chiederanno e ci offriranno. Ma la parità di accesso ed una chiara e trasparente governance sono per noi condizioni irrinunciabili".

A proposito delle Internet company, Ibarra ritiene che si tratti di un "tema da sfatare". L'Ad di Wind non vede "problemi"; "Google, Amazon, Facebook - ha sottolineato - non sono un rischio per le telecom mobili: sono un'opportunità. E non è una speranza: è una realtà. VimpelCom, a cui fa capo Wind, ha appena siglato un accordo proprio con Google per la "revenue sharing" dei contenuti comprati dai nostri clienti attraverso il market place di Android, Google Play".



Poste: La Cgil sul decreto di detassazione del salario di produttività

Il decreto uscito  dal Consiglio dei Ministri sulla detassazione del salario di produttività è un provvedimento inadeguato e sbagliato nella forma e nella sostanza. Nella forma in quanto riprende e addirittura peggiora i contenuti dell'accordo separato sulla produttività, nella sostanza in quanto è sprovvisto di criteri che possano effettivamente incidere su una autentica crescita della produttività.

Il decreto infatti da una parte vincola la detassazione ad una diversa modulazione dell'orario di lavoro e dall'altra cancella in via definitiva qualsiasi riferimento a voci previste dai contratti nazionali di lavoro (turni, lavoro notturno, lavoro festivo e domenicale) che costituiscono prestazioni che più di altre incidono sulla produttività e sulla competitività delle imprese con il risultato di ridurre così le retribuzioni dei lavoratori interessati a queste prestazioni in quanto non più beneficiari della detassazione riconosciuta negli anni passati.

In alternativa vengono introdotti criteri del tutto avulsi da questi contesti di orario, quali la
fungibilità delle mansioni (leggi demansionamento), l'impiego delle nuove tecnologie in rapporto alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori (leggi controllo a distanza) che possono al contrario deprimere la produttività in quanto peggiorano le condizioni di lavoro e i diritti delle persone.

Altrettanto grave è l'intervento sull'autonomia della contrattazione e quindi sull'attuale previsione dei contratti nazionali laddove il decreto prevede il criterio del non superamento delle due settimane di ferie consecutive e della programmazione non continuativa delle giornate residue per poter usufruire della detassazione.

L'unico aspetto salvaguardato dal decreto è la conferma della detassazione sui premi di produttività che costituisce una prassi per larga parte della contrattazione svolta in questi ultimi anni. Infine sugli importi se da una parte è stata recepita la richiesta dell'innalzamento a 40.000 euro del reddito di riferimento su cui agisce la detassazione, dall'altra è stato ridotto a 2.500 euro il tetto dei  benefici per singolo lavoratore che negli anni passati era previsto fino a 6000 e poi sceso grazie ai tagli intervenuti.

Per queste ragioni il nostro giudizio sul decreto è negativo. Si tratta ora di verificare nel rapporto con le controparti se esistono le condizioni concrete entro le quali la contrattazione collettiva può esercitare comunque una funzione positiva per affrontare il rapporto tra salari e produttività in un quadro di corrette relazioni tra le parti.

28 gennaio 2013

Tasse, scontro Monti-Camusso

Mario Monti in mattinata ha detto che esclude una nuova manovra in primavera ma ha poi aggiunto che “dipenderà dal voto”. Gli replica a stretto giro la leader della Cgil, Susanna Camusso: ”Benché dimissionario, dovrebbe ricordarsi di essere il presidente del Consiglio, quindi dovrebbe rispondere su a che punto lascia i conti del Paese e non può sostenere che la manovra ci può essere o no a seconda di chi vince anche perché appare un messaggio minaccioso agli elettori”.
”Devo dire – aggiunge Camusso – che appare un messaggio minaccioso agli elettori, anche se non si capisce quale sia la minaccia: i conti sono in ordine o non sono in ordine? Delle due ci dovrebbe dire qual’e', visto che i conti non possono essere in ordine o in disordine in ragione del voto, che deve comunque essere libero”.
Rispetto al suo programma, attacca la leader Cgil, ”credo che sia il modello che abbiamo visto tante volte in questo Paese: abolirò questo, abolirò quell’altro, un milione di posti di lavoro… Salvo poi dimenticarsi cosa si e’ fatto fino al giorno prima e che cosa succederà un momento dopo. Se il presidente Monti pensa che ci siano nel giro di due anni 30 miliardi di risorse disponibili, vorrei chiedergli – prosegue Camusso – come mai non sono investite sul lavoro e per fare politiche che ci permettano di uscire dalla crisi adesso, invece di aspettare il dopo elezioni”.


INPS: percentuale di erogazione nei contratti di solidarietà

L'INPS, con il messaggio n. 1114 del 17 gennaio 2013, ha affermato che per effetto della disposizione di proroga contenuta nella legge n. 228/2012 l’ammontare dell’indennità per i contratti di solidarietà ex art. 1, comma 1, della legge n. 863/1984, anche nel 2013 sarà pari all'80%.

L’INPS, nel messaggio 18 gennaio 2013, n. 1114, ha spiegato che la L. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013) ha prorogato anche per l’anno 2013 l’aumento del 20% dell’indennità prevista in caso di contratti di solidarietà difensivi per le aziende rientranti nel campo di applicazione del trattamento straordinario di integrazione salariale (art. 1, D.L. n. 726/1984, conv. in L. n. 863/1984). In particolare, all’art. 1, comma 256 si dispone che «l'intervento di cui al comma 6 dell'articolo 1 del D.L. 1° luglio 2009, n. 78, è prorogato per l'anno 2013 nel limite di 60 milioni di euro». L'onere derivante dal presente comma è posto a carico del Fondo sociale per l'occupazione e la formazione, di cui all'articolo 18, D.L.185/2008.
Pertanto, anche per l’anno 2013, la misura del trattamento di integrazione salariale per i predetti contratti è pari all’80% della retribuzione persa a seguito della riduzione di orario di lavoro.

 Contratti di solidarietà

I contratti di solidarietà sono dei contratti collettivi stipulati tra datore di lavoro e i sindaca il cui scopo è  quello di favorire l’occupazione.

Tali contratti sono disciplinati dalla L. 863/1984 di conversione del D.L. 726/1984 che prevede due diverse tipologie: contratti di solidarietà difensivi diretti a evitare la riduzione del personale; contratti di solidarietà espansivi finalizzati ad incrementare l’occupazione.


Entrambe le tipologie contrattuali utilizzano la riduzione dell’orario di lavoro a fini occupazionali, con la differenza che i contratti difensivi sono stipulati da imprese in crisi, mentre quelli espansivi non sono legati a una crisi aziendale di nessun genere, ma, seguono il principio di solidarietà tra lavoratori occupati e quelli disoccupati.

La durata del contratto di solidarietà non può essere inferiore a dodici mesi e superiore a ventiquattro mesi. Superato il termine, le imprese possono chiedere una proroga di altre 24 mesi; decorso anche tale termine, può essere stipulato un nuovo contratto di solidarietà soltanto dopo che siano trascorsi 12 mesi.
La concessione del trattamento d’integrazione salariale è prevista in favore di operai, impiegati e quadri d’imprese industriali. In generale, tutti i dipendenti delle imprese che hanno diritto alla CIGS e che hanno stipulato contratti collettivi aziendali, con i sindacati maggiormente rappresentativi.

Non può essere applicato invece ai lavoratori dei cantieri edili per fine lavoro, ai lavoratori a domicilio, agli apprendisti, ai dirigenti, ai lavoratori con contratto a tempo determinato (assunti per far fronte a esigenze di natura produttiva di carattere stagionale).

Contratti di solidarietà difensivi

I contratti di solidarietà difensivi prevedono una riduzione dell’orario di lavoro ripartendolo fra più lavoratori, allo scopo di evitare il licenziamento dei lavoratori in eccesso.

La misura del trattamento d’integrazione salariale è pari al 60% del trattamento perso in seguito alla riduzione di orario lavorativo.

Tali contratti rappresentano un sostegno nei confronti delle imprese e soprattutto dei lavoratori, per i quali la riduzione dell’orario di lavoro comporta una riduzione anche della retribuzione.

Lo Stato interviene concedendo ai lavoratori un trattamento d’integrazione salariale e ai datori di lavoro una riduzione dei contributi previdenziali e assistenziali.

La riduzione dell’orario lavorativo può essere ripartita nelle forme di riduzione dell’orario giornaliero, settimanale o mensile.

Contratti di solidarietà espansivi

I contratti di solidarietà espansivi prevedono la riduzione dell’orario di lavoro allo scopo di consentire l’assunzione di nuovo personale e  incrementare l’occupazione aziendale.

L’art 2 della Legge 726/1984 prevede nel caso di ricorso a contratti di solidarietà espansivi, degli incentivi in favore dei datori di lavoro, consistenti in un contributo per ogni lavoratore assunto e per ogni mensilità di retribuzione ad esso corrisposto, pari per i primi dodici mesi  al 15% della retribuzione lorda prevista nei Contratti collettivi. Per quanto riguarda invece i successivi due anni, il predetto contributo è ridotto, rispettivamente, al 5-10%.

Per assumere nuovi dipendenti, utilizzando la forma del contratto di  solidarietà espansivo è indispensabile:
- stipulare un contratto collettivo aziendale con i sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale che preveda una riduzione stabile dell’orario di lavoro, con riduzione della retribuzione, e un contestuale piano di assunzione di nuovo personale;
- le nuove assunzioni devono essere eseguite con contratto di lavoro a tempo indeterminato;
- l’azienda non deve aver proceduto, nei dodici mesi precedenti a una riduzione di personale;
- le assunzioni non devono determinare una riduzione del numero della manodopera femminile rispetto a quella maschile nell’unità produttiva interessata dalla riduzione di orario o, nel caso in cui i lavoratori maschi siano inferiori numericamente a una riduzione della percentuale maschile.
Per ottenere i benefici contributivi, il datore di lavoro deve presentare il contratto collettivo stipulato con i sindacati alla DPL (Direzione Provinciale del Lavoro) di competenza per territorio.

In un secondo momento la DPL controllerà la corrispondenza tra la riduzione dell’orario di lavoro e le nuove assunzioni la quale dopo essersi espressa favorevolmente  darà la comunicazione all’INPS competente. Il contributo invece risulterà sospeso nel caso a seguito di controlli della DPL si riscontrino delle violazioni dei contratti collettivi stipulati.

Pensioni. Il furto dei contributi silenti. Inps: “Restituirli? Falliremmo”

Pensioni. Il furto legalizzato dei contributi silenti. Nessuno può esibire cifre esatte, tanto meno l’Inps che però si limita a ricordare, con il direttore generale, che una qualsiasi forma di restituzione “l’Istituto rischierebbe il default. La questione, infatti, coinvolge milioni di persone”. Milioni di persone, le quali hanno versato migliaia di euro in contributi ma che, non potendo raggiungere il livello minimo di contribuzione, vedranno andare letteralmente in fumo  i contributi versati. La riforma Fornero, che ha elevato per tutti quella soglia minima di contribuzione a 20 anni, aggrava il problema. La riforma delle pensioni del ’93 concedeva a chi avesse versato contributi per 15 anni entro il 1992 o che a quella data avesse iniziato a versarli, di poter accedere alla pensione a 60 anni. La riforma Fornero ne richiede 20 di anni di contribuzione.
Mauro Nori, direttore generale dell’Inps, sollecitato dal quotidiano di informazione economica Italia Oggi, si nega a qualsiasi presa di posizione di tipo politico ma, da tecnico, è costretto a ricordare che “in qualsiasi sistema pensionistico esiste una soglia minima di contribuzione che dà accesso alla pensione”. Giusto, ma grazie ai miliardi in contributi silenti (Italia Oggi offre una stima plausibile in 10 miliardi), che servono ai più diversi scopi dalle pensioni al welfare, il sistema complessivo regge, i lavoratori garantiti ne beneficiano, mentre una platea enorme, formata da tante donne, ex lavoratori autonomi, stagionali agricoli pagati con i vaucher, professionisti con una vita lavorativa irregolare, non riceveranno indietro nulla né in termini previdenziali, né assistenziali, a fronte di un impegno economico rilevante.
Facciamo un esempio. Un lavoratore con una busta paga da 1500 euro netti al mese, versa circa 700/750 euro al mese all’Inps. Diciamo 9/10 mila euro l’anno. 5 annoi di contributi silenti valgono una bella sommetta, 50 mila euro, che il contributore non rivedrà mai, certo non con la pensione, ma nemmeno con qualche forma di riscatto o prestazione al lavoratore. Che fare per non perdere i contributi del tutto? Due soluzioni: prosecuzione volontaria o totalizzazione. La prima consente di versare contribuiti pur in assenza di un contratto di lavoro al fine di raggiungere i requisiti minimi: è molto onerosa e non vale per chi abbia meno di 5 anni di contribuzione piena. 4 anni significa contributi persi per sempre. La totalizzazione è molto onerosa ma perlomeno non esclude, come in passato, chi non poteva cumulare spezzoni contributivi di almeno tre anni.

27 gennaio 2013

Telelavoro, ricetta anti-crisi

Come emerge da una serie di indagini condotte da Federmanager in collaborazione con l’Università di Tor Vergata e Unindustria, l’applicazione di modalità di telelavoro rappresenta, in Italia, una soluzione del tutto marginale. Rispetto a quanto avviene in altri paesi dell’Europa del nord o negli Usa - dove le percentuali di attivazione di criteri di telelavoro sono fra il 10 e il 20% - ci attestiamo fra  l’ 1,5 e il 2% della forza lavoro attiva.
 Il nostro sistema produttivo, formato prevalentemente da medie e piccole imprese e caratterizzato da un modello organizzativo della PA estremamente burocratizzato, non favorisce l’applicazione del telelavoro. Il dato che più colpisce è quello che vede il nostro Paese fermo, negli ultimi dieci anni, su posizioni marginali rispetto ad una costante crescita del fenomeno in Paesi non propriamente a vocazione industriale quali Grecia, Portogallo, Romania e in generale l’area dell’est europeo.


Due le ragioni principali che determinano il gap: la prima è di tipo culturale, la seconda tecnologica. In Italia il lavoro da remoto è considerato dal datore di lavoro un’attività su cui è difficile esercitare azioni di controllo mentre da parte del lavoratore è generalmente considerato come una modalità applicabile ad aree marginali e di scarso contenuto professionale. La normativa non aiuta se si considera che solo dal 2002 i contratti collettivi di lavoro hanno esteso anche alla fattispecie in questione le norme che regolano le tradizionali attività lavorative. Se è vero che il datore di lavoro ha privilegiato e privilegia la presenza del lavoratore presso l’ufficio o l’unità produttiva è analogamente vero che i sindacati di categoria hanno a loro volta avanzato forti resistenze  verso forme di decentramento produttivo nel timore di perdere un controllo diretto della base sindacale. Eppure i lavoratori che possono avvalersi di un programma di telelavoro godono di una molteplicità di vantaggi a partire dall’incremento della soddisfazione: sono soggetti ad una pressione inferiore, si sentono “attivi” e apprezzano di più il loro lavoro rispetto a quando lo svolgono in ufficio. La job satisfaction è legata anche al fatto che possono ottenere un controllo maggiore nel bilanciare il rapporto lavoro-famiglia. Un secondo beneficio è il risparmio di tempo e denaro derivante dalla diminuzione dei costi e dei tempi per andare in ufficio - si può arrivare a risparmiare oltre il 10% del reddito per spese di trasporto e assistenza familiare .


Da segnalare poi l’aumento della produttività; i lavoratori che svolgono i loro compiti lontano dal luogo tipico di lavoro sono per lo più soggetti a meno distrazioni. L’aumento della produttività è un effetto anche della minore vulnerabilità e coinvolgimento delle politiche aziendali e si traduce in più numerose opportunità  di carriera.
Ma c’è il problema della mancanza e/o carenza di infrastrutture tecnologiche. E sono ancora troppo poche le aziende che nel nostro Paese hanno avviato e consolidato processi di innovazione  al fine di rendere il proprio sistema produttivo adeguato alla concorrenza e alla competizione internazionale. Scontiamo ancora forti ritardi per quanto riguarda gli investimenti in Ict e ancor più grave è il ritardo nel potenziamento delle  reti principali di Tlc. Attraverso una convinta iniziativa politica,supportata anche dalle organizzazioni sindacali - che vedrebbero nell’attuazione di programmi strutturati di telelavoro una ricetta per la stabilizzazione del lavoro e la conseguente riduzione dei livelli di disoccupazione - si potrebbero raggiungere percentuali di applicazione di soluzioni di telelavoro intorno al 7-8%.

I tempi per l’organizzazione dei nuovi processi produttivi è stimabile in circa 12-18 mesi, periodo in cui quasi 1,5 milioni di lavoratori della PA, dell’Industria e dei Servizi potrebbero essere totalmente attivi in termini di erogazione di prestazioni attraverso modalità innovative di vario tipo. Si può calcolare una riduzione dei costi di produzione per unità occupata intorno ai 150 euro al mese, al netto degli investimenti necessari per modificare i processi organizzativi e aggiornare l’infrastruttura tecnologica abilitante. Ciò corrisponde a un montante di circa 200 milioni al mese - circa 2,5 miliardi l’anno. In conclusione, un serio avvio di una politica che favorisca il telelavoro non sarà la panacea di tutti i mali, ma potrebbe rappresentare un contributo importante in un’ottica di riduzione degli sprechi, innalzamento dei livelli produttivi, modernizzazione del Paese e aumento della qualità della vita.

di Guelgo Tagliavini, Responsabile Agenda digitale Federmanager Italia


26 gennaio 2013

Camusso: ripartire dal lavoro, la nostra proposta per il paese

Sceglie il giorno della memoria come incipit del suo intervento Susanna Camusso per chiudere, dal palco del PalaLottomatica, la due giorni della Conferenza di Programma della Cgil, promossa per presentare al Paese il 'Piano del Lavoro'. Prende la parola intorno alle 12.30 e, davanti ai tanti partecipanti ai lavori della Conferenza, il leader della Cgil dedica il suo primo pensiero alla giornata di domani, 27 gennaio. “Ricordarcene e ricordarlo - dice - è parlare di questa nostra Europa e ricordarsi che se il nostro continente ha potuto attraversa una stagione di unità è perché, dalle straordinarie tragedie della seconda guerra mondiale, ha imparato che la pace è la sola occasione per offrire una prospettiva”. Anche perché, ed è notizia di queste ore, “nel nostro Paese si sta riproducendo un vento che non ci piace e nei confronti del quale bisogna fare grande attenzione. Abbiamo visto con stupore quanto poco abbia fatto notizia un'organizzazione, riconosciuta e in lizza per le elezioni, che stava organizzando l'aggressione a una ragazza la cui unica colpa è il fatto di essere ebrea”. Il riferimento di Susanna Camusso è agli arresti di ieri a Napoli di esponenti di estrema destra che si erano dati come obiettivo quello di aggredire e violentare una ragazza ebrea. “Al governo, non al prossimo ma a quello che c'è oggi, chiedo che se non ci siano gli estremi per mettere in atto quella legge che impedisce la ricostruzione di forze fasciste nel nostro Paese”, aggiunge Camusso dal palco. Secondo il segretario della Cgil, il Paese ha bisogno di essere ascoltato. “Capire cos'è il Paese, quali sono i bisogni e le sue necessità. Basterebbe ascoltare la gente che si incontra e provarsi a mettere in relazione con loro per capirne le priorità, le esigente e i bisogni”, ovvero le testimonianze raccolte in questi due giorni, come nella quotidiana attività della Cgil. Un punto, quest'ultimo, di distanza dal governo Monti: “Mentre sarebbe bastato prestare ascolto e attenzione a queste poche cose per conoscere il mondo - afferma Camusso -, il governo non ha voluto vedere cosa stesse succedendo: nella sua azione ci sono forse i numeri della finanza ma di certo non le persone in carne e ossa”. Per questo la Cgil riporta, con la sua proposta, il lavoro al centro. Certo non un lavoro qualsiasi purché sia, perché questo determina nei giovani l'idea che “l'ingresso nel mondo del lavoro sia solo fatica e non l'avvio di un processo di autonomia e di libertà”. Per il Segretario della Cgil ai lavoratori va offerta un'idea di lavoro, di contratti, capace di ricomprendere chi un lavoro ce l'ha, chi lo sta cercano o chi vuole semplicemente mantenerlo. “Il lavoro che dobbiamo fare noi - ha spiegato Camusso - è quello di rivendicare il cambiamento ma sapendo che questo mondo, divaricato e diviso, va tenuto insieme”. E questo processo non può che essere determinato da una contrattazione che sia la libera espressione del rapporto tra le parti. Ecco perché bisogna cancellare l'articolo 8 della legge 138 del 2011. Ed ecco perché va cancellato anche l'articolo 9: “Noi abbiamo un'idea della dignità delle persone per cui il mondo non deve essere dei forti: la creazione dei ghetti dei disabili è una cosa che non vogliamo vedere”, dice il leader della Cgil. Mettere il lavoro al centro dell'azione politica e sindacale vuol dire riconoscere l'importanza dei temi della democrazia e della rappresentanza che sono, secondo Susanna Camusso, “parte della democrazia del nostro Paese" e perché il diritto sia pieno, non basta cancellare gli ostacoli posti dal governo precedente, insieme ai troppi accordi separati ma "serve una legge”. "La prospettiva di un contratto nazionale - ha continuato il Segretario generale della Cgil - deve essere inclusiva delle troppe forme di lavoro. La domanda che ci viene dai precari è quella di offrire anche a loro la possibilità di far valere le proprie esigenze e le proprie rivendicazioni”. C'è insomma un'idea di società nel Piano della Cgil che parte dal lavoro. Come hanno colto gli ospiti intervenuti ieri alla prima giornata. Camusso esprime un apprezzamento nei loro confronti: “Hanno avuto rispetto di noi, non sono venuti qui per fare un comizio. Hanno dimostrato rispetto non dandoci ragione su tutto ma ponendoci domande e esprimendo i loro dubbi”. Replicando alle osservazioni giunte in queste ore, come quelle relative alla tempistica di attuazione della proposta, Susanna Camusso ha rilevato come “si sia creata una strana discussione su un teorico primo e secondo tempo. Non ci sono due tempi ma l'idea che se devi rimettere in moto il paese e che c'è un punto da cui partire”. Non due tempi distinti dunque ma “un treno che non si spezza”. Sulle risorse, il Segretario generale della Cgil ribadisce: “Noi pensiamo che la patrimoniale serva in questo Paese, serva discuterne e farla; così come pensiamo che bisogna cambiare marcia sul tema dell'evasione perché c'è la sensazione che la si prenda troppo bassa. Serve un cambio di passo, anche per interrompere quei canali malavitosi che si inseriscono nel tessuto economico", come ha denunciato anche un giornalista come Giovanni Tizian. "Evasione e tassazione sui grandi patrimoni - ha continuato Susanna Camusso - non possono più essere elusi perché il Paese ha un bisogno urgente di abbassare le tasse sui lavoratori e sui pensionati. Sì certo anche alle imprese - specifica il Segretario generale della Cgil - ma consideriamo che la riduzione del cuneo fiscale per ben due volte è andata tutta a favore delle imprese e non dei lavoratori”. Sul ruolo del pubblico, sull'idea di una sua maggiore presenza in economia, Susanna Camusso, con ironia ha sottolineato “la paura che questa prospettiva ha generato”, Mentre sul tema della spesa pubblica ha evidenziato come la proposta della Cgil individui il tema della sua riorganizzazione “ma anche della necessità di cambiare il modo con cui sono ad oggi è stata affrontato il problema: quello dei tagli lineari". Sugli assetti istituzionali, il Segretario generale della Cgil ha ribadito “che bisogna partire dalle competenze aggregando le istituzioni là dove possono dare risposte più efficienti ed efficaci ai cittadini”. A chi si dice preoccupato di una più incisiva presenza pubblica nel sistema economico, Susanna Camusso osserva: “Siamo un paese strano che storce il naso quando si parla di nazionalizzazioni e poi discute della indispensabilità di finanziare le banche e nazionalizzarle”. Annunciando a breve una proposta con la Fisac per maggiore trasparenza e revisione della governance nel settore bancario, il Segretario generale della Cgil dedica un passaggio delle sue conclusioni alla vicenda del Monte dei Paschi di Siena: “Anche qui - dice - si sta dando un esempio pessimo di come si devono discutere le questioni. Non si vuole affrontare il nodo principale che sta emergendo in queste ore: il sistema bancario è ancora pieno di derivati e di finanza tossica”. Salvo alcune “scomposte reazioni”, da parte di esponenti del centro destra, il Piano del lavoro della Cgil ha registrato attenzione e apprezzamenti diffusi. "Da qui, dal Piano del Lavoro, la Cgil vuole partire. “Adesso per noi si apre un'altra stagione: non solo quella delle cose che non vanno bene ma quella di chi sa che ha una proposta da mettere in campo e vuole confrontarsi a tutto campo. La Cgil ha una proposta che ha bisogno di pochi comizi e tanta discussione con le persone nei luoghi di lavoro". "Alziamo lo sguardo e offriamo risposte alle tante domande che ci rivolgono. Combattiamo l'idea cupa della rassegnazione e apriamo una prospettiva. Torniamo nei luoghi di lavoro e nei territori. Facciamo meno filosofia ma più proposte, cercando l'interlocuzione con Cisl e Uil". "Se ora la Cgil è pronta - ha concluso il Segretario generale della Cgil - è il Paese adesso ad aver bisogno di un governo che si assuma le responsabilità e che abbia una proposta non di galleggiamento, ma di fuoriuscita dalla crisi. Qualunque esso sia,qualunque siano le proposte che avremo di fronte, noi saremo in piedi sulle nostre gambe" "Non per altro la Cgil, come recita la campagna per il tesseramento 2013, è "Fondata sul lavoro”.

25 gennaio 2013

Angelo Villari: “Al governatore Crocetta chiediamo un nuovo Patto per il lavoro in Sicilia"

Il Segretario Generale della Cgil di Catania,
 su “L’Unità”, invita il Presidente della Regione Rosario Crocetta a costruire in Sicilia un nuovo Patto per il lavoro

“Al governatore Crocetta chiediamo un nuovo Patto per il lavoro in Sicilia, una forma innovativa di concertazione fra governo e parti sociali, per costruire un progetto di rilancio economico-sociale". E' l’appello al neo presidente della Regione Sicilia che il segretario della Camera del lavoro di Catania, Angelo Villari, lancia dalle pagine de l'Unità. In un contributo a firma dello stesso Villari, parte da Catania un invito-proposta della Cgil al neo governatore a convocare un tavolo di trattativa per affrontare le emergenze che colpiscono il tessuto produttivo catanese in particolare, ed isolano.
Villari scrive che “Catania, importante area metropolitana del mezzogiorno, è la metafora del declino che oggi vive l'Italia ed in particolare la Sicilia. E' trascorso mezzo secolo da quando il livello di sviluppo economico della città era visto come un miracolo del Meridione. Era quasi tutto vero. Quasi, perché i miracoli economici possono anche spegnersi se non si determinano attorno ad un sistema industriale e produttivo le condizioni infrastrutturali, le capacità di innovare e le necessarie garanzie sul terreno della legalità, utili per farlo affermare”.
Villari sottolinea: “Ecco la grande contraddizione della nostra isola e dei suoi territori: é tanto decadente quanto piena di potenzialità. Decadente perché tante vertenze diventate simbolo della città ne minano il suo futuro. Nel comparto della mobilità, la compagnia low cost Windjet é passata dal grande decollo al tracollo improvviso e traumatico, in piena estate, lasciando a piedi ottocento lavoratori e migliaia di passeggeri, siciliani e non solo, che hanno visto nel vettore il sinonimo di sviluppo e di un' Europa finalmente più vicina, specie dopo l'assoluto e incomprensibile smantellamento del sistema ferroviario siciliano. L'azienda doveva ripartire entro dicembre, ma nulla é ancora accaduto. In ballo però c'è la mobilità stessa dell'Isola”.

Villari cita anche la difficile vertenza Aligrup e il rischio sgretolamento dell’Etna Valley, e fa riferimento ai licenziamenti Nokia e ai giovani ingegneri costretti ad emigrare, nonché alla crisi dell’industria e dell’agricoltura.
“Catania, la Sicilia, il Mezzogiorno hanno bisogno di mettere al centro il lavoro per dare speranza e futuro. Per questo l'impegno per un piano del lavoro, un lavoro dignitoso e produttivo, deve partire da qui. Il Governo nazionale deve considerare queste storie di casa nostra come "storie di tutti" come accade per la Fiat e per le tante vertenze simbolo regionali e nazionali. – scrive Villari- Al governo regionale, al presidente Crocetta, da poco insediato, chiediamo un impegno concreto a partire da queste vertenze, cosi come chiediamo di confrontarsi con le forze sociali e produttive siciliane su quali idee bisogna mettere in campo per garantire all'isola crescita e progresso,insieme alla costruzione di un welfare regionale inclusivo che garantisca i diritti di cittadinanza (servizi, sanità, istruzione,ecc) in Sicilia troppo spesso negati specie alle fasce più deboli e necessari per sostenere quel cambiamento non più rinviabile. Un confronto tra istituzioni, sindacato ed imprese che può diventare un modello virtuoso da portare come esempio per tutto il Paese”.

Cgil, il piano del lavoro in sintesi


Creare nuovi posti di lavoro, mettendo al centro il territorio, riqualificando industria e servizi, riformando Pa e welfare, con l'ambizione di dare senso all'intervento pubblico come motore dell'economia. Difendere il lavoro nei settori più tradizionali, come l'agricoltura, l'industria e il terziario. Il tutto sostenuto da una radicale riforma fiscale. Sono questi in estrema sintesi gli obiettivi contenuti nel 'Piano del Lavoro - Creare lavoro per dare futuro e sviluppo al Paese' della Cgil che il sindacato ha presentato oggi alla conferenza di Programma. A distanza di 64 anni dal piano del Lavoro firmato da Giuseppe Di Vittorio, la Cgil rilancia un “secondo” Piano del Lavoro. Ci sono infatti analogie nelle condizioni di partenza: l'Italia usciva da una devastante guerra; oggi, dopo un altrettanto devastante crisi economica, c'è ancora bisogno di “ricostruzione” e innovazione.

La proposta di un Piano del Lavoro, infatti, come si legge nell'incipit del testo, “nasce dalla ferma convinzione che non si aprirà una nuova stagione di crescita e sviluppo se non si riparte dal lavoro e dalla creazione di lavoro”. Un lavoro che invece negli anni è stato “svilito e messo da parte” mentre, parallelamente, la crisi del sistema diventava strutturale. “Quindici anni di non aumento della produttività - scrive la Cgil nel Piano -, vent'anni di profitto spostati a rendite finanziarie e immobiliari, un miliardo di ore di cassa integrazione negli ultimi anni, circa quattro milioni di lavoratori precari sono il quadro del declino del nostro Paese, di un processo di deindustrializzazione che ha visto una forte accelerazione nei cinque anni della crisi”.

“Serve una grande rivoluzione culturale che affronti innanzitutto il tema del Paese”, si legge nel Piano del Lavoro. Da qui l'individuazione degli obiettivi che partono dalla creazione di nuovi posti di lavoro legati: “Ad attività di risanamento, bonifica, messa in sicurezza del territorio e valorizazione dei beni culturali; allo sviluppo dell'innovazione tecnologica nella tutela dei beni artistici; alla riforma e al rinnovamento della Pa e del welfare; all'economia della conoscenza; all'innovazione e alla sostenibilità delle reti infrastrutturali”.

L’Italia è tecnicamente in recessione dal 2008 e non è previsto che ne esca nel 2013. Finora gli interventi dettati dalle autorità europee hanno agito solo sul versante del rigore: il taglio della spesa pubblica per ridurre i debiti sovrani e riequilibrare i bilanci pubblici nella speranza di ottenere fiducia dai mercati. Ciò – rileva la Cgil - ha prodotto ulteriore impoverimento dei paesi più deboli, aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze, compressione del reddito da lavoro e dei diritti, soprattutto a scapito delle nuove generazioni. Aumentare la distanza fra paesi e fra le persone non fa ripartire l’economia europea e mondiale.

Per la Cgil la fase che abbiamo di fronte, quindi, non può esaurirsi esclusivamente nel rigore, come è stato negli ultimi mesi, va cambiato il baricentro delle politiche. Creare lavoro significa creare sviluppo e, in Italia, vuol dire difendere e qualificare l’attuale occupazione, rilanciando e rinnovando profondamente la base industriale e la specializzazione produttiva del paese, oltre che l’equità distribuitiva. Bisogna ritrovare l’obiettivo della piena, buona e sicura occupazione. E per rispondere a tale obiettivo occorrono nuovi lineamenti di politica economica che indirizzino le risorse, pubbliche e private, verso l’innovazione e i beni comuni. Per questo la Cgil propone, al futuro governo, alle forze sociali, alla politica, alle istituzioni, ai cittadini, un Piano del lavoro che abbia come presupposto che la prima grande ricchezza dell’Italia è se stessa, il suo territorio, la sua cultura, il suo patrimonio storico e artistico, la sua tradizione di saper fare, il progettare e produrre di cui il migliore made in Italy è una traduzione.

Il Piano del lavoro è un piano di legislatura per una nuova politica industriale, sociale e ambientale, fondate su una nuova politica fiscale. Per questo il Piano può rappresentare innanzitutto una scelta di cittadinanza, di legalità, di partecipazione, di redistribuzione della ricchezza. Il Piano del lavoro proposto dalla Cgil ha in sé obiettivi di breve e medio periodo, con lo scopo di creare lavoro e l’ambizione di ridare senso al ruolo economico dello Stato e, perciò, centralità all’intervento pubblico come motore dell’economia: da un lato, un piano straordinario di creazione diretta dell’occupazione, in particolare nel Mezzogiorno, attraverso una grande iniezione di investimenti pubblici in beni comuni (ambiente, energia, infrastrutture, conoscenza, welfare ecc.); dall’altro, una nuova regolazione pubblica, soprattutto locale, definita da progetti operativi di politica industriale attiva e “orizzontale”, che permettano di generare, liberare, attrarre investimenti all’insegna dell’innovazione, partendo dalla domanda legata a un’intera o più filiere produttive (valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, produzioni verdi e blu, edilizia antisiimica, reti digitali, Tpl ecc.) e ai servizi pubblici (tutela del territorio, ciclo dei rifiuti, riassetto idrogeologico ecc.). In altre parole, investimenti pubblici e nuova occupazione pubblica per attivare moltiplicatori di investimenti, reddito e occupazione nei settori privati dell’economia italiana.

Se si vuole costruire un nuovo modello di sviluppo, o più brutalmente se intendiamo fermare davvero il declino, contrastare la deindustrializzazione e riavviare una crescita del paese, l’intervento pubblico è non solo necessario, ma essenziale. Welfare è fattore di sviluppo di un’economia, ma è anche misurarsi sulla nuova “questione sociale” e sull’evoluzione dello sviluppo, che non può non affrontare il tema della produzione dei beni collettivi. Non c’è solo da mettere fine alla politica dei tagli della spesa pubblica e dei servizi, c’è da guardare all’andamento demografico, da definire il nuovo paradigma del compromesso sociale che sta a garanzia della qualità delle vita delle persone. Il territorio deve ritornare al centro dello sviluppo.

Il lavoro si lega necessariamente al welfare, ai sistemi territoriali, per questo la contrattazione sociale nel territorio e il confronto sindacale con Regioni e Comuni può diventare il momento di attivazione, di adattamento e di verifica dei progetti operativi per la crescita, sostegno delle piccole e medie imprese e per l’attivazione del Piano del lavoro. Quest’ultimo parte dai bisogni, dalle arretratezze, dalle grandi potenzialità del paese per introdurre innovazione dal lato dell’offerta (tecnologica, organizzativa, amministrativa, societaria, istituzionale, di sistema) all’insegna della coesione sociale e territoriale. Il Piano propone nuove modalità di realizzazione delle politiche economiche e industriali, nazionali e territoriali, articolate per: esigenze del paese, linee pluriennali di indirizzo, programmi prioritari, progetti operativi, momenti di verifica e bilancio.

Il Piano del lavoro, poiché si attiva dal lato della domanda, necessita di una governance partecipata dai territori (istituzioni, forze sociali, luoghi del sapere e della ricerca) e dai soggetti dell’economia reale che vi operano. Proprio perché non si realizza in breve tempo, ha bisogno di un metodo, anche per l’individuazione delle risorse necessarie, di “programmazione” assieme a scelte straordinarie, come, appunto, la proposta di un programma straordinario di occupazione per i giovani e per le donne. Il Piano del lavoro, per la sua qualità innovativa e di trasformazione strutturale dell’economia del nostro paese, ha l’ambizione di caratterizzare un periodo che va dai tre ai cinque anni, proprio attraverso la definizione dei progetti operativi che caratterizzano gli obiettivi indicati. La credibilità di un obiettivo di medio periodo si costruisce dando risposta e affrontando prima le emergenze in coerenza all’idea che il lavoro genera anche processi di riduzione della disuguaglianza e di inclusione sociale.

Per il medio periodo, i progetti operativi richiedono alcune riforme all’insegna dell’equità sociale, dell’inclusione sociale e della promozione sociale. Nello specifico, il Piano prevede: una profonda riforma del sistema di istruzione; una riforma coordinata degli assetti istituzionali; una riorganizzazione dei servizi pubblici locali per aggregazione e bacini di utenza; il ripristino della legalità nel ciclo economico. La Cgil pone con il suo impegno una prospettiva di innovazione anche nella contrattazione, per una nuova qualità, un nuovo modello di contrattazione e, di conseguenza, un ruolo rinnovato delle parti sociali. In tal senso, occorre partire dall’applicazione dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 sul sistema contrattuale a due livelli: il ccnl livello di definizione generale delle tutele, dei diritti, del potere d’acquisto e di inclusione regolata di tutti i rapporti di lavoro; il secondo livello di attuazione delle materie demandate dal ccnl in materia di organizzazione del lavoro, professionalità, crescita delle retribuzioni.

E sulla base di un accordo-legge su democrazia e rappresentanza (di cui il 28 giugno definisce le premesse), la Cgil propone di rinnovare le rappresentanze sindacali elettive nei settori privati e avviare la certificazione della rappresentatività dei soggetti sindacali, sviluppare la democrazia sindacale. Senza dimenticare la necessità di sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori alle scelte delle imprese, alla definizione degli obiettivi, alla loro realizzazione. Alla contrattazione collettiva spetterà anche il compito di promuovere nuova occupazione stabile di qualità e di regolare precariato e forme atipiche di impiego. Il percorso ideale di realizzazione dovrebbe vedere un quadro strategico definito dal governo nazionale, confrontato con le parti sociali e tradotto concordemente con la Conferenza Stato Regioni e autonomie locali in linee pluriennali di indirizzo.

Le Regioni e le autonomie locali definiscono con parti sociali, università, centri di ricerca e altri soggetti progetti operativi che in coerenza con le linee pluriennali affrontano le specificità regionali e del territorio. Il Piano del lavoro si attua per linee di cofinanziamento pubblico-pubblico (nazionale, regionale, locale) e pubblico-privato sottoposte all’approvazione dei progetti operativi e a verifiche di realizzazione, alle condizioni di necessità, fattibilità, innovazione, coinvolgimento di volta in volta predefinite.

Il Piano del lavoro è aperto a contributi, integrazioni, miglioramenti sia sul versante del percorso sia dei suoi progetti. Il Piano ha l’ambizione di confrontarsi con il prossimo governo e tutte le amministrazioni, per produrre una politica di creazione di lavoro e crescita. La sua fase di avvio e il suo attuarsi concreto sono affidati alla concertazione e contrattazione territoriale unitaria, che, sulla base delle esperienze realizzate in questi anni, ha saputo costruire un patrimonio solido (seppure non omogeneo) di accordi e intese tra forze sociali e istituzioni territoriali. L’attività delle strutture sindacali regionali e territoriali, poiché svolge funzioni di rappresentanza diversa e più ampia di quella propria, dovrà sperimentare pratiche di fattiva partecipazione, di confronto, di collaborazione e di verifica con la società civile.

Sostenibilità del Piano
Per realizzare il nuovo Piano del lavoro occorrono risorse da dedicare principalmente a:
a) progetti operativi (4-10 miliardi di euro);
b) programmi del Piano straordinario di creazione diretta di lavoro (15-20 miliardi di euro);
c) sostegno all’occupazione, riforma mercato del lavoro e ammortizzatori sociali (5-10 miliardi di euro);
d) piano per un Nuovo welfare (10-15 miliardi di euro);
e) restituzione fiscale (15-20 miliardi di euro).

Le risorse totali necessarie ammontano circa a 50-60 miliardi in un triennio, in parte aggiuntive, in parte sostitutive, e possono essere recuperate attraverso:
a) la riforma organica del sistema fiscale fondata su un recupero strutturale del reddito evaso, un allargamento delle basi imponibili; una maggiore progressività dell’imposizione tributaria nel suo complesso può generare maggiori entrate per un ammontare di almeno 40 miliardi di euro annui;
b) la riduzione dei costi della politica e degli sprechi e la redistribuzione della spesa pubblica possono produrre almeno 20 miliardi di euro di risparmi strutturali;
c) il riordino di agevolazioni e trasferimenti alle imprese, per recuperare almeno 10 miliardi;
d) l’utilizzo di una parte delle risorse delle fondazioni bancarie (verso “valori collettivi e finalità di utilità generale”, così come previsto dall’ordinamento italiano, legge 218/1990), soprattutto per il piano per il Nuovo welfare;
e) l’utilizzo programmato dei Fondi europei;
f) lo scorporo degli investimenti dai criteri di applicazione del Patto di stabilità e crescita;
g) l’utilizzo dei Fondi pensione attraverso progetti per favorire la canalizzazione dei flussi di risparmio verso il finanziamento degli investimenti di lungo periodo, garantendone i rendimenti previdenziali;
h) la Cassa depositi e prestiti, sull’esempio della Caisse des Dépots francese, deve consolidare la missione di utilizzare le sue emissioni obbligazionarie di lungo e lunghissimo termine per attirare i capitali, oltre l’orizzonte temporale degli operatori tradizionali, su progetti di sviluppo e infrastrutturali per investimenti strategici e di lungo periodo, sia per le pubbliche amministrazioni che per le società industriali, diventando così uno dei soggetti essenziali per l’innovazione e la riorganizzazione del Sistema paese.

Impatto del Piano
Una simulazione econometrica predisposta dal Cer ha calcolato l’impatto macroeconomico del Piano del lavoro Cgil. In sintesi, sulla base delle risorse recuperate attraverso le riforme proposte nel Piano (fisco, spesa pubblica, fondi europei ecc.), è stata realizzata una simulazione delle seguenti misure economiche dal 2013 al 2015:
• Progetti e programmi prioritari per 5 miliardi di euro;
• Piano straordinario per creazione diretta di lavoro per 15 miliardi di euro;
• Sostegno occupazione per 10 miliardi di euro;
• Restituzione fiscale per 15 miliardi di euro;
• Piano per Nuovo welfare (5 miliardi di euro, calcolati con il deflatore implicito dei consumi).

Rispetto allo scenario di base (realizzato sulle misure precedenti, in assenza di nuove politiche) l’attivazione del Piano del lavoro, in un triennio, potrebbe generare, in termini cumulati, una nuova crescita del Pil pari a +3,1 punti, +2,9 punti di nuova occupazione, sulla base di nuovi investimenti (+10,3 per cento), un aumento del reddito disponibile (+3,4 per cento) e dei consumi delle famiglie (+2,2 per cento) assieme a un ulteriore incremento delle esportazioni (+1,8), riducendo il tasso di disoccupazione nel 2015 al livello pre-crisi (7 per cento). Nella tabella che segue si riporta una simulazione di impatto del Piano del lavoro nel triennio in corso (2013-2015) a confronto con uno scenario base fondato sulle attuali politiche pubbliche e previsioni economiche.

Mutualizzazione del debito europeo e interventi - La crisi del debito sovrano che interessa l’Eurozona richiede un intervento decisivo e strutturale volto a rendere sostenibili i debiti dei differenti Stati membri al fine di riallineare la situazione economica, finanziaria e fiscale tra gli Stati più “forti” e gli Stati più “deboli”. L’intervento consiste nel graduale ritiro da parte della Bce - modificandone opportunamente lo statuto e i trattati istitutivi dei due fondi salva-stati, Esm e Efsf - di titoli di Stato per quasi 1.900 miliardi di euro (cifra pari alla somma del 20% del Pil di ciascun Paese).