25 gennaio 2013

Cgil,programma con la presentazione del Piano del lavoro: Parla Susanna Camusso

ROMA – “Parlare del lavoro è parlare del pane, è la condizione necessaria per uscire dalla crisi”. Susanna Camusso, leader della Cgil, lo ha detto all’apertura della Conferenza di programma con la presentazione del Piano del lavoro la mattina del 25 gennaio. Per uscire dalla crisi, spiega Camusso, l’unica via è quella di “creare e difendere il lavoro”. Il governo, seconda la leader della Cgil, deve garantire equità fiscale ed i fondi per finanziare la crescita possono essere trovati anche dal recupero di soldi dalla lotta all’evasione fiscale. Parlando delle elezioni e delle campagne elettorali  Camusso afferma: “Servono programmi, non creare nemici per evitare di confrontarsi sui temi importanti”.
Camusso ha detto: “Il lavoro è l’unica vera condizione per creare ricchezza nel nostro Paese e nel mondo, la condizione per uscire dalla crisi. Creare e difendere lavoro è l’unica premessa credibile di una proposta per uscire dalla crisi”.
La leader della Cgil ha aggiunto: “‘Le scelte europee e la loro traduzione italiana hanno aggravato la crisi, non hanno posto le premesse per uscirne. Perché è  stata sbagliata la premessa: quella del rigore e dell’ossessione del debito pubblico”.
Poi aggiunge: “Dobbiamo essere netti: non si esce dalla crisi italiana se non c’è un governo che sappia e voglia. La prima grande necessità si chiama equità fiscale, una seria progressività della tassazione e una tassa sulle grandi ricchezze, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie mobiliari e immobiliari”.
Camusso spiega che un’altra delle ”strade di finanziamento” viene dalla lotta all’evasione fiscale: ”Dopo anni di propaganda pro-evasione, il tema deve e può tornare sui giusti binari”. Siamo ”convinti che l’Italia può uscire dalla crisi se è tutta insieme. A pezzi si aggrava la crisi”.
Parlando delle elezioni, aggiunge: “Non è riconoscimento e rispetto quel tramestio che caratterizza la campagna elettorale, che non distingue i ruoli, che confonde responsabilità, che crea nemici per non provare a misurarsi sui contenuti, che scarica responsabilità per non ammettere che ha trascurato il Paese”.


25/01/2013, ore 12:15 - Camusso, il Piano del Lavoro per uscire dalla crisi
Il Piano del Lavoro è la nostra proposta per uscire dalla crisi, la traccia con la quale indichiamo che Paese potremmo essere, l'idea di un nuovo modello di sviluppo che generi benessere. Non nascondiamo che è una proposta che si confronta con una composizione di parametri del PIL ben più ricca e vasta. Un adagio di questi anni, dicevamo, è il welfare come costo, è il welfare che non deve più essere lavorista, è il cambiamento della popolazione, dai migranti all’allungamento dell’aspettativa di vita, che lo rendono un costo insostenibile nel tempo e così via. Una litania infinita. Abbiamo detto che rivendichiamo la riforma della Pubblica Amministrazione, essenziale sia per il welfare che per la programmazione. Un welfare che rimetta al centro le persone e la loro condizione con la misura dei fabbisogni, l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali. Un welfare pubblico che può essere integrato da quello contrattuale o dagli accreditamenti, ma non sostituito. Ma quando sentiamo non lavoristico, vorremmo ricordare che tanta parte del welfare è già determinata dal contributo delle imprese e dei lavoratori. E se la legge sugli ammortizzatori è così sbagliata è proprio perché non ha saputo misurarsi con l’origine del finanziamento del sistema, renderla omogenea e mettere risorse per renderla universale, disponibile anche al mondo del precariato e del lavoro parasubordinato, atipico, mentre si aveva in animo di cancellare quanto già finanziato dalle parti. Ma analogo ragionamento possiamo fare per la formazione e per la previdenza complementare. Tanti aspetti del welfare che non devono essere trasformati in assicurazioni individuali, cancellandone la natura universalista. Ma confutato questo adagio sul welfare, ribadito che è produttore di sviluppo, generatore di occupazione, serve un cambiamento del sistema. Cosa vuol dire nuovo welfare, welfare territoriale, con che problemi si deve misurare? Abbiamo visto tanti tagli, non riforme. La composizione della popolazione muta, si allunga la vita, ci sono esigenze che slittano nel tempo, c’è un grande tema di invecchiamento attivo, che non può essere solo allungamento infinito degli anni di lavoro, così come il ponte generazionale abbiamo capito essere tutto nuovamente a carico delle parti. Ma se è così, questo welfare non funziona con la nuova legge delle pensioni e il metodo contributivo ad attuali coefficienti. Ma la popolazione muta nelle solitudini, nei bisogni che si vedono e che vanno rilevati. Ci vogliono politiche di domiciliarità per la non autosufficienza, favorendo l’autonomia ma non trasformandola in solitudine. Serve un’idea vera di politiche attive di sostegno al reddito, formazione, diritto allo studio dalla primissima infanzia. Ovvero nuovo welfare non è un esercizio teorico, è misurarsi con le persone, in un grande rispetto delle loro scelte nell’attenzione alla coesione sociale, come abbiamo detto parlando di contrattazione sociale. Nel Piano del Lavoro di cui siamo soggetto promotore e attore non solitario, abbiamo detto che nessuno è autosufficiente e che non ci vogliamo sostituire ad alcuno. Riteniamo che tra le pagine da voltare, nel “nulla sarà come prima”, c'è anche quella compiuta con la svalorizzazione della rappresentanza sociale, e di quella del lavoro in primis. Poniamo esplicitamente il problema del riconoscimento e del rispetto. Non è riconoscimento e rispetto quel tramestio che caratterizza la campagna elettorale in corso, che non distingue i ruoli, che confonde responsabilità, che cerca nemici per non provare a misurarsi sui contenuti, che scarica responsabilità per non ammettere che ha trascurato il Paese. Abbiamo delineato la priorità, il lavoro, una proposta per l'emergenza, i giovani e la creazione di posti di lavoro, la riorganizzazione del Paese con i progetti operativi. Abbiamo cioè indicato la necessità di un nuovo compromesso sociale. Lo abbiamo qualificato non guardando a come eravamo, ma come scelta per determinare la qualità di quel “nulla sarà più come prima”. Governare quel cambiamento è progettare il futuro che dobbiamo cominciare a costruire nel presente. Una nuova stagione di partecipazione, di condivisione, di conflitto positivo, non preventivo e non fine a se stesso. Per questo, lo diciamo ai nostri ospiti, vedremmo con orrore un'interlocuzione tipo “il vostro programma è il nostro”. L'esperienza ci dice che è strada sbagliata e scivolosa. Sbagliata perché quando diciamo “ci vuole un nuovo compromesso sociale” non pensiamo ad un patto generale, magari di legislatura. Il Piano del Lavoro è una proposta compiuta che mettiamo a disposizione del Paese, intorno alla quale crediamo possa crescere un dibattito e una mobilitazione collettiva, che dovrà e potrà vedere accordi generali o più specifici, tra parti e non tra partner. Il fine, cioè, è il merito delle cose che si faranno, non il metodo. Il Piano del Lavoro è l'oggi e i prossimi anni. Sarà per noi la misura del cambiamento e dell'idea di sviluppo del Paese. Non ci distrarrà dall'idea che priorità nel Piano del Lavoro è creare lavoro per i giovani, ma serve subito, lo dico nuovamente ai nostri ospiti, dare un segno della qualità politica di una nuova stagione affrontando alcune scelte che tra l'altro non costano. La prima è senz’altro la cancellazione dell'articolo 8 e dell’articolo 9: se l’articolo 8 è quel passo indietro che la legislazione deve fare perché la contrattazione sia libero esercizio delle parti, non costruzione derogatoria e cancellazione delle certezze contrattuali, l’articolo 9 è un problema di civiltà, di necessità di inclusione dei diversamente abili, di dignità e rispetto, che mai troverà risposta nella costruzione di ghetti. La seconda è la legge sulla democrazia e rappresentanza a cui proviamo a contribuire lavorando per l'accordo tra le parti. Mentre temiamo che urgenza ed emergenza restino gli ammortizzatori in deroga e la soluzione per gli esodati. Non si ferma ovviamente qui l'elenco delle necessità, quelle che al governo che verrà dovremo proporre: dal come si ripara ai guasti dei tanti tagli e delle tante iniquità, alle leggi da correggere che dovranno accompagnare quella riorganizzazione del Paese che abbiamo tracciato. Il Piano del Lavoro nel 1949/50 indicava le scelte del Paese, indicava che cosa CGIL, lavoratori e lavoratrici, pensionati avrebbero messo al servizio del Paese. È stato nel tempo tradotto negli “scioperi alla rovescia”, definizione in realtà sbagliata. Il Piano del Lavoro fu sorretto da tante lotte e mobilitazioni, ma certo allora si mise a disposizione lavoro per ricostruire infrastrutture e per progettare consumi per un mondo del lavoro che ben pochi consumi poteva permettersi. Abbiamo riflettuto su quell'esperienza. Nel vedere la somiglianza e le differenze abbiamo colto il chiamare alla mobilitazione di tutti per indicare degli obiettivi e per porre degli interrogativi, perché non è solo proporre, è anche come si contribuisce oltre il quotidiano e strategico fare. Abbiamo riflettuto sull'imperativo categorico del creare lavoro, definendolo come buon lavoro qualificato. Abbiamo riflettuto sull'esperienza del Paese, sugli effetti dell'innalzamento dell'obbligo scolastico e, pochi anni dopo, sui processi di ri-alfabetizzazione, sull'accesso all'istruzione anche per chi ne era stato escluso. Per usare la formula di allora, pensiamo che dobbiamo accompagnare il Piano con le 150 ore "alla rovescia". Il lavoro, diciamo sempre, ha grandi saperi. Li ha sul lavoro stesso, sui prodotti, sulla contrattazione, sulla sicurezza e salute, sulla tutela individuale e collettiva, e tanti altri saperi e conoscenze. Le nostre Camere del Lavoro sono state da sempre anche luogo di istruzione. Abbiamo insegnato la lingua italiana agli stranieri, abbiamo voluto la traduzione delle segnalazioni di sicurezza nei cantieri. Il nostro mondo, dai pensionati ai lavoratori, è una miniera di esperienza, conoscenza, saperi e di desiderio di apprendimento. Allora questa sarà la nostra sfida nella sfida, essere “maestri”, trasmettitori di conoscenza, interlocutori e progettisti dei programmi operativi del nostro Piano, propagatori di una cultura positiva del lavoro. Non sostituti delle funzioni istituzionali, ma promotori, come nelle 150 ore, dell’istruzione come diritto collettivo e permanente, oltre i cicli scolastici e l'età, anche come risposta ai desideri. In quest'epoca schiacciata sul presente, condizionata da un contingente che cancella valori, abbiamo voluto alzare lo sguardo, tradurre quel “noi non ci rassegniamo” e “cambiare si può” con cui abbiamo colorato le tante piazze della nostra lunga mobilitazione di questi anni. Sappiamo di avere la responsabilità verso quei tanti che hanno guardato e guardano a noi per mantenere fiducia nel futuro; abbiamo l'orgoglio di avere tenuto aperta la prospettiva quando troppi abbassavano le bandiere; abbiamo l'idea che il lavoro sia l'unico vero soggetto di trasformazione positiva. Abbiamo tradotto tutto questo nel Piano del Lavoro, una proposta che è aperta al contributo e al confronto, tracciata nella linea fondamentale, ma che ancora può e deve crescere. Una proposta che, lo ribadiamo ancora una volta, non è il libro dei sogni, non dà i numeri, ma costruita per progetti, dà concretezza ed immediatezza, celerità di risposta alla disoccupazione dei giovani e delle giovani. Un Piano per prendersi cura del lavoro e del Paese. Prendere in carico e curare sono parole inusuali nel lessico politico, emergono solo quando si parla degli affetti e dei compiti delle donne, a proposito di modernità e cambiamento. Le donne non solo curano, ma cambiano il lavoro, il mondo, il benessere di tutti, per questo prendersi cura parla a tutti ed è responsabilità di tutti. Il Piano del Lavoro lo porteremo nelle assemblee, nelle nostre rivendicazioni, nel nostro agire quotidiano.