In caso di riduzione del personale, è giusto che un azienda adotti come criterio di messa in mobilità la vicinanza all'età pensionabile dei propri dipendenti.
E' quanto stabilisce la sentenza della corte costituzionale n. 9348 del 26 aprile scorso.
La sentenza arriva alle fine di un contenzioso tra le poste italiane e un proprio dipendente.
Il 25 giugno 2001, ai sensi dell'art. 24 della legge 223 del 1991, Poste Italiane iniziò una procedura per il licenziamento collettivo nei confronti di 9.000 lavoratori, in eccedenza rispetto alla proprie esigenze tecnico-produttive.
Un impiegato fece ricorso contro il licenziamento dinanzi al Tribunale di Firenze, che lo accolse e dichiarò illegittimo l'atto di recesso.Poste italiane impugnò poi la sentenza presso la Corte d'Appello di Firenze che, con sentenza pubblicata il 10 luglio 2007, respinse però il ricorso. Ora la cassazione ha dato ragione a Poste Italiane, valutando corretta la modalità di selezione del personale in eccedenza da licenziare.
Nella sentenza si legge, che “in più occasioni il criterio della prossimità al trattamento pensionistico è stato ritenuto da questa Corte conforme al principio di non discriminazione in ragione dell'anzianità, anche nella sua dimensione europea, nonché a criteri di razionalità ed equità”.
La corte si richiama poi alla sua precedente pronunzia del 12 agosto 2009, n. 18253, in cui si stabiliva che “l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato nell'azienda, e (...) che, nell'ambito delle misure idonee a ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione”.
Dunque, secondo quanto stabilito dalla corte, “una volta accertato che sussisteva la necessità di licenziare parte dei lavoratori, la scelta, condivisa dai sindacati, di individuare i lavoratori da licenziare in coloro che avevano i requisiti per passare dal lavoro alla pensione, mantenendo in servizio coloro che invece sarebbero passati dal lavoro alla disoccupazione rimanendo privi di fondi di reddito, è una scelta di cui è difficile negare la ragionevolezza”.