10 maggio 2011

Intervista al Presidente Telecom Italia Dr. Franco Bernabè

Telecomunicazioni settore strategico? «La strategicità non si tutela difendendo l'esistente, ma creando le condizioni per nuovi investimenti sia da parte degli operatori nazionali che da parte degli operatori esteri. L'importante è avere un mercato che funzioni, la certezza del diritto, il rispetto delle regole, la riduzione della burocrazia. E lo Stato prima che preoccuparsi degli strumenti di difesa, deve preoccuparsi del progetto di politica industriale che intende perseguire». Franco Bernabè, presidente esecutivo di Telecom, affronta con la redazione del Sole 24 Ore i temi caldi del nuovo corso del gruppo.


I dati del primo trimestre confermano che Telecom corre in Brasile e Argentina, ma resta in affanno sul mercato domestico. Siete in grado di finanziare la crescita laddove si cresce o pensate prima o poi di dover ricorrere agli azionisti?

Bernabè. Anzitutto vorrei sottolineare che abbiamo fatto una scelta strategica, che inverte quella che era la tendenza del gruppo ormai da 7-8 anni. Telecom a fronte dell'elevato indebitamento – dovuto alla fusione con Olivetti e poi al buy-out delle minoranze di Tim – ha reagito cedendo attività all'estero, ridimensionandosi fortemente. Quando sono arrivato, nel 2008, ho trovato una situazione di accesa concorrenza in Italia, con l'Argentina che presentava una serie di problematicità legate al rapporto con i soci e il Brasile in una fase di caduta di quote di mercato e di criticità anche sul piano economico. Tant'è che, ancora nel 2009, c'erano pressioni affinché fossero cedute le attività brasiliane con l'argomentazione che era necessario ridurre il debito e si poteva farlo dismettendo proprio questo asset. Per contro, si diceva, si cercherà invece di valorizzare le attività domestiche con i conseguenti ragionamenti sullo scorporo della rete.


E invece?

Bernabè. Si pensava di risolvere il problema del debito con il ridimensionamento del gruppo a misura nazionale o addirittura con la sua riduzione a puro fornitore di servizi. Da subito ho ritenuto che questa fosse una soluzione perdente: i problemi di un mercato maturo sono strutturali e necessitano un cambiamento del paradigma del business. Alla presentazione del piano industriale a Londra, nel dicembre del 2008, sottolineammo che il punto fermo era la salvaguardia della generazione di cassa e che ci saremmo concentrati più sulla riduzione dei costi che sulla crescita dei ricavi, puntando sui mercati esteri per lo sviluppo. Abbiamo quindi avviato la ristrutturazione in Brasile e lavorato per recuperare la nostra presenza in Argentina. In tre anni abbiamo tagliato 5 miliardi di costi, compensando la flessione dei ricavi sul mercato domestico. Che in Europa il mercato sia maturo lo dimostrano anche i risultati di Deutsche Telekom, o quelli di Kpn, che è il campione della strategia di focalizzazione sul domestico. Anche Orange, che ha un modello di business diverso dal nostro, mostra segni di affaticamento, mentre Telefonica non ha ancora presentato i conti, ma non credo che vedremo un quadro molto diverso per quanto riguarda il mercato spagnolo.


E allora dobbiamo chiederci: sul mercato interno le tlc hanno un problema di business congiunturale o devono affrontare una situazione di cambiamento strutturale? La risposta ovviamente è la seconda. Telecom Italia è partita prima di tutti gli altri su questa strada: ridurre i costi è stata ed è una politica di attacco, non di difesa. Chi non l'ha fatto si troverà in difficoltà in futuro. La Borsa, fino a poco tempo fa, ha vissuto di illusioni – si valutavano le società su multipli di fatturato – oggi invece si comincia a pensare che quel che conta è la cassa che si è in grado di generare. Con il costo della tecnologia che continua a diminuire e la concorrenza sempre più accesa i ricavi non possono crescere, bisogna ridurre i costi. È grazie a questo che Telecom per tre anni ha mantenuto lo stesso livello di Ebitda e ha ridotto i debiti. L'indebitamento netto è passato da quasi 37 a una cifra che alla fine di quest'anno inizierà con il 2.


Ci permettiamo di insistere: e l'aumento di capitale? Prima o poi occorrerà sostenere la crescita all'estero.

Bernabè. Non abbiamo in programma di ricorrere agli azionisti: il tema non si pone neanche in termini ipotetici. In Brasile stiamo preparando la struttura del capitale per utilizzare la quota in eccesso ai fini della crescita, là dove ce n'è la possibilità e, dunque, solo in Brasile. Lo spostamento di Tim Participaçoes sul Novo Mercado del Bovespa, dove possono essere quotati solo titoli ordinari di società con elevati standard di governance, testimonia che in Brasile ci siamo e vogliamo crescere. Quanto all'Argentina, la situazione è differente: lì, dopo la crisi del Paese, Telecom Argentina era in una condizione di fortissimo indebitamento, oggi ha una posizione di cassa attiva e il suo consolidamento in Telecom Italia permette di ribilanciare la struttura finanziaria del gruppo.


A proposito di Tim Brasil, perché avete rinunciato a chiedere un conguaglio monetario per la conversione delle azioni privilegiate in ordinarie e come cambia la quota di Telecom di conseguenza?

Mangoni. La quota di Telecom resta analoga a quella di adesso, intorno al 67%, la conversione è a premio per le ordinarie e la diluizione di terzi poco rilevante. Il titolo diventerà però più liquido grazie a questa operazione. Il conguaglio monetario non era necessario: Tim Participaçoes ha un debito bassissimo che si ridurrà fino a sparire nell'arco di due anni. E abbiamo voluto seguire un approccio non aggressivo nei confronti dell'azionista privilegiato. Tant'è che il mercato ha apprezzato, visto che all'annuncio il titolo ha guadagnato il 12%.


E invece i rapporti con gli azionisti di Telecom Italia? Come può convivere un socio industriale con una compagine di azionariato finanziaria, con interessi a volte contrapposti?

Bernabè. Il nostro azionariato è fatto di grandi istituzioni. Telco era entrata in Telecom prevalentemente per difendere l'interesse nazionale. Oggi ha una prospettiva più chiara e sono sicuro che saprà accompagnare la crescita del gruppo nell'ottica della tutela di un asset che resta fondamentale per il Paese. Una riprova è l'assetto di vertice che è stato sostenuto dagli azionisti. Al rinnovo del mandato, sono stato riconfermato io e Marco Patuano è stato incaricato di focalizzarsi sul mercato domestico che richiede un'attenzione costante, consentendo a me di concentrarmi sulle strategie che poi sono quelle che indicano la tabella di marcia. Oggi c'è un rapporto molto positivo tra azionariato e management.


Il bilancio è gravato da imponenti avviamenti, nell'ordine dei 40 miliardi, per le fusioni infragruppo. Sono ancora congrui questi valori?

Bernabè. Gli avviamenti sono sottoposti a procedure di impairment molto rigorose e finora non si è evidenziata l'esigenza di svalutarli. Ma gli analisti guardano a quanta cassa genera il business, non al rischio di svalutazioni contabili. Vodafone, per esempio, ha svalutato goodwill per parecchi miliardi, senza soffrire in Borsa.


Fino a che punto il problema del goodwill è irrilevante? Se si presentasse la necessità di una svalutazione importante potrebbe essere compromessa la capacità di distribuire dividendi.

Bernabè. Nel piano abbiamo promesso che ridurremo il debito fino ad arrivare a un rapporto net debt/Ebitda sotto quota 2 a fine triennio e che aumenteremo gradualmente il dividendo. Confermiamo che sosterremo una crescita prudente del dividendo. La questione degli avviamenti è irrilevante sotto questo profilo, perché le riserve disponibili sono più che ampie.


Il titolo però in Borsa non riesce a risalire dal livello di un euro. Gli azionisti non possono dirsi soddisfatti.

Bernabè. È un tema importante e delicato che va posto nella giusta prospettiva. Il settore è trattato in Borsa intorno a 4,5 volte l'Ebitda, a riflettere l'incertezza sul futuro e i titoli delle tlc sono valutati di fatto in base al dividend yield. In passato Telecom aveva benefici fiscali che consentivano di distribuire più utili agli azionisti. Prima, cioè, Telecom pagava più dividendi e meno tasse; oggi paga tasse normali e dividendi normali. Tutti gli indicatori puntano nella giusta direzione, farei un errore a deflettere da questa linea. Prima o poi il titolo si risolleverà.


I tassi d'interesse puntano verso l'alto. In che misura sarà impattato il debito di Telecom Italia?

Mangoni. L'impatto sarà comunque irrilevante. Per i due terzi il debito è a tasso fisso e la struttura finanziaria è improntata alla prudenza, con quasi 7 miliardi di liquidità in cassa. Un aumento dei tassi avrebbe piuttosto l'effetto di aumentare il rendimento della liquidità. Quanto al rifinanziamento del debito in scadenza, il nostro costo sta scendendo perché il debito sta diminuendo, mentre la cassa resta abbondante.


La trimestrale conferma che Telecom Italia soffre sul mercato domestico dove c'è una continua perdita di ricavi e quote di mercato. Come pensate di fermare l'emorragia?

Bernabè. In tutti paesi avanzati, la telefonia è un mercato ormai maturo dove il fatturato cala per effetto della diminuzione dei prezzi. La voce è sempre più una commodity, un bene di uso comune, e quindi le tariffe e i costi per l'utente devono necessariamente scendere. Non è una politica di rinuncia, ma anzi di attacco: perché per vendere e guadagnare un prodotto che diventa più povero occorre essere molto efficienti. Non possiamo pretendere che Telecom Italia faccia la Apple: le tlc vivono in quanto sono sistemi aperti.


Il concetto è chiaro: la torta in Italia, e altrove, non solo non cresce, ma anzi si riduce. Eppure anche in un mercato ormai "strasaturo", c'è chi acquista quote di mercato, a scapito di altri. Si pensi a Wind che aumenta ricavi e clienti. Quindi non è nemmeno vero che in Italia non si può crescere più...

Patuano. È vero che una parte di market share si è riallocata a favore di operatori come Wind. Ma bisogna fare un passo indietro. Quando fu introdotta la telefonia cellulare si giustificava un premium price sulla miglior qualità del servizio. Oggi avere un premium price sul mobile è anacronistico e non più difendibile: la telefonia mobile richiede un approccio "personale". Questo ha portato a una "commoditizzazione" del servizio. In tutta Europa, il traffico voce è calato del 18%, sono calati i prezzi. Se prendo il prezzo medio che applico oggi, lo sconto è dell'ordine del 30% rispetto a qualche anno fa. Perdere quote è un percorso, quindi, inevitabile. Tuttavia, sto aumentando il numero di clienti e l'indice di soddisfazione.


La riconoscibilità del brand Tim è al top: aveva un tasso di disaffezione tra i più alti e oggi, invece, è tra i più bassi e una capacità di acquisizione di nuovi clienti in linea con i competitor. Un percorso inevitabile. Adesso occorre tenere la barra dritta e sviluppare la banda larga mobile, dove torna il tema della qualità della rete, che è migliore di quella dei nostri concorrenti, perché abbiamo sempre investito molto: il premium price si sta spostando sulla banda larga mobile. Abbiamo dovuto fare un reset totale di business model, ma ora siamo tranquilli con questo modello in fase di esecuzione e rassicurati anche della constatazione che Telecom Italia è forte nella fascia di età dai 24 ai 35 anni, clienti che sono grandi utilizzatori di banca larga mobile.


Tornando alle considerazioni di scenario, se è vero che in Italia il mercato non ha margini di espansione, dobbiamo aspettarci un'ulteriore ondata di M&A? Si ridurrà il numero di operatori? Il pensiero va ad aziende come Tiscali o Aria, candidate a possibili aggregazioni... C'è ancora spazio per quattro operatori?

Patuano. Se guardo al resto del mondo, direi di no. Telecom Italia si guarda sempre intorno, ma al momento non ha dossier allo studio.


L'azionariato di Telecom Italia non è solo Telco: dall'assemblea sono emersi numerosi azionisti di minoranza che potrebbero addirittura essere maggioranza. C'è poi un socio, la Findim di Marco Fossati, che pur detenendo il 5% non ha consiglieri. Non sarebbe opportuno adeguare lo statuto e cambiare il voto di lista?


Bernabè. Fino all'introduzione, quest'anno, della record date molti fondi non si presentavano in assemblea. Oggi quelle stesse minoranze hanno ottenuto tre consiglieri, una presenza positiva. Cercheremo di fare altri passi in avanti, ma per cambiare il voto di lista occorre modificare lo statuto e per farlo ci vuole l'ok di tutti i soci


Negli ultimi anni il gruppo ha tagliato il personale di 50mila unità. Vuole spendere qualche parola sul «Popolo Telecom»?

Bernabè. Telecom Italia ha gestito una profonda e complessa ristrutturazione con un elevato consenso sociale e sindacale. Da fuori si vede solo il numero degli usciti, ma parallelamente c'è stata una grande opera di riqualificazione del personale. Le fasce d'età che sono state oggetto di pre-pensionamenti sono state sostituite da persone più giovani, tutte prese all'interno dell'azienda, con un grosso sforzo di mobilità aziendale.


Periodicamente si torna a parlare di un possibile scorporo della rete: dal vecchio piano Rovati alle ipotesi (sempre smentite) di creare un network di nuova generazione "sottraendo" l'infrastruttura a Telecom Italia e aprendola agli operatori alternativi. L'azienda, invece, ha sempre dichiarato inalienabile questo asset.

Bernabè. Quella sulla separazione della rete è una discussione nata da un'incomprensione che riguarda le dinamiche del business. Se è vero che la componente voce della telefonia è ormai una commodity, nel futuro il nostro sarà un business di infrastruttura con livelli differenziati di servizio. Oggi parlare di scorporo non ha alcun senso industriale e anche il motivo per il quale era stato inizialmente pensato, cioè ridurre il debito di Telecom Italia, era una scelta sbagliata visto che il debito l'abbiamo ridotto ugualmente senza portare fuori dall'azienda il cuore della sua struttura. Per quanto riguarda invece le implicazioni di natura regolatoria, ricordo che Open Access abbiamo raggiunto l'obiettivo di garantire ai concorrenti la parità delle condizioni d'accesso alla rete.


Il tavolo al ministero dello Sviluppo per la costituzione di una società mista per la rete di nuova generazione sembra andare a rilento. Ci sono visioni contrapposte? Intendete comunque andare avanti?

Bernabè. Il tavolo Romani è una buona idea alla quale abbiamo partecipato fin dall'inizio. Ma naturalmente abbiamo condizioni irrinunciabili. La prima è la sussidiarietà dell'intervento dove gli operatori sono già presenti con propri investimenti. La seconda è un vincolo di accountability: è giusto che ognuno paghi l'utilizzo della nuova infrastruttura in coerenza con la propria architettura di rete. Il terzo vincolo è un'adeguata remunerazione del rischio imprenditoriale. Nel rispetto di tali criteri possiamo andare avanti. Poi è chiaro che ci sono anche altri allo stesso tavolo.


L'asta per le frequenze della banda larga mobile è in stallo. Lo Stato punta a incassare entro settembre 2,4 miliardi, gli operatori chiedono garanzie sulla effettiva disponibilità delle frequenze per le quali investiranno. Qual è la via d'uscita?

Bernabè. Il discorso è complicato. Le frequenze che lo Stato intende mettere all'asta non sono ancora disponibili. Sono infatti occupate dalle tv locali che non mi sembrano intenzionate a mollarle. Pagare per un bene che non è disponibile non sarebbe un'azione giustificabile davanti agli azionisti.


Uno dei mali cronici dell'Italia è il ritardo nell'utilizzo di internet, ma anche un digital divide più infrastrutturale, con almeno 500mila aziende non collegate. Eppure qualcosa sembra muoversi, per esempio in Lombardia avete appena annunciato un investimento congiunto con la Regione per portare la banda larga in 707 comuni, la metà di quelli lombardi, dove adesso ci si collega ancora alla velocità dei vecchio doppino. Quali sono i prossimi passi che farete?

Cicchetti. L'esempio della Lombardia è solo l'ultimo di una serie, che viene dopo un accordo simile fatto nelle Marche e in Sardegna. In Italia circa 1,8 milioni di linee, il 10% del totale, non supportano l'Adsl perchè sono in zone a fallimento di mercato. I prossimi passi che faremo sono quindi altri accordi con le Regioni che consentano di chiudere il digital divide.


Dal punto di vista economico-finanzario, quali metodi ci sono, secondo lei, per dare un internet veloce ed efficiente a tutte quelle aziende che ancora non ce l'hanno.

Cicchetti. Il metodo definito "scozzese" è quello adottato per la Lombardia. Un ente pubblico anticipa le risorse e se le aree nelle quali si investe si confermano a fallimento di mercato questi soldi rimangono investiti nel progetto. Altrimenti vengono restituiti. L'altra modalità è che lo Stato intervenga direttamente posando infrastrutture e fibra, sul modello di Infratel, affittandole poi a prezzo di mercato agli operatori. E infine ci sono i finanziamenti privati.


Le società di internet sono in cima alla lista dei desideri del mercato, mentre le tlc ristagnano verso il basso.

Bernabè. Io dico che le telecomunicazioni torneranno ad essere valutate con tutti i loro asset, con la robustezza delle loro infrastrutture, tutto il resto mi ricorda un po' il periodo della new economy.


Lei sostiene da tempo che operatori come Google, Facebook o Skype e attività come il download "consumano" la rete senza investirci.

Bernabè. È proprio così. Circa il 70% delle nostre risorse di rete sono occupate dal traffico video e dal peer-to-peer. Questi soggetti dovranno iniziare a entrare nell'ottica di investire sulle reti che saturano, ma internet stessa si arricchirà di nuovi livelli di servizio. Da un lato ci sarà il web che conosciamo, sempre in miglioramento, dall'altro una piattaforma a qualità garantita per servizi critici come la telemedicina.


Si parla molto di net neutrality, che pare il contrario dell'internet a più velocità al quale si è accennato.

Bernabè. Neutralità della rete significa dare la possibilità a qualsiasi contenuto lecito di circolare in rete. Io invece direi che è ora di estendere il concetto di neutralità a tutte le parti della catena di valore di Internet: motori di ricerca, sistemi operativi e applicazioni.


Giovedì l'Agcom ha approvato il percorso di riduzione delle tariffe di terminazione mobili voluto dall'Europa. Si tratta del "pedaggio" che un operatore deve pagare quando la sua chiama termina sulla linea dell'altro. Per tutto il mercato valgono circa 3,5 miliardi di euro.

Patuano. Dal punto di vista economico non avremo impatti sulla redditività, ma sulla strutturazione dell'offerta sì. Cambierà il paradigma commerciale passando da una fatturazione "a minuto" a bundle di minuti.

Bernabè. La discesa delle tariffe di terminazione introduce una forte discontinuità nel nostro modello di business nel momento in cui gli operatori sono chiamati a fare investimenti importanti per le infrastrutture e per le frequenze. È un percorso che ci mette in una situazione difficile e non siamo certo contenti di questo. Abbiamo detto che non avremo particolari impatti sui conti dell'azienda, ma di certo non ci aiuterà a investire. Diciamo che ci troviamo ancora di fronte a una politica industriale che continua a penalizzare gli operatori e che allo stesso tempo chiede investimenti importanti.