- Ordinanza 7963 del 2012 -
Il datore che non fa lavorare affatto il dipendente, non mette in atto un semplice demansionamento, ma lede il diritto del lavoratore a eseguire la propria prestazione lavorativa, diritto della persona riconosciuto dalla nostra Costituzione. Con questa condotta non adempie a un obbligo derivante dal contratto di lavoro e incorre in responsabilità contrattuale. Lo sostiene la Corte di cassazione nell'ordinanza 7963 del 2012.
La decisione riguarda un lavoratore che, reintegrato nel posto di lavoro, viene, tuttavia, lasciato a oziare. Si rivolge allora al giudice del lavoro per essere risarcito per il danno derivante dal comportamento del datore di lavoro. Il tribunale gli dà ragione e condanna l'azienda al risarcimento del danno biologico e di quello alla professionalità, quantificato in 26mila euro.
La società si rivolge alla Corte d'appello, che conferma l'esistenza di un demansionamento, ma nega il danno per la perdita di professionalità. In particolare, i giudici affermano che il mancato esercizio di un'attività professionale non rappresenta, di per sé, un danno risarcibile, perché deve essere il lavoratore a provare l'impoverimento del proprio patrimonio cognitivo teorico-pratico o la perdita di occasioni di promozione o di sviluppo di carriera.
Il lavoratore ricorre in Cassazione, censurando la motivazione della sentenza che riconosce un demansionamento, ma esclude il danno alla professionalità collegato alla violazione dell'identità professionale sul posto di lavoro. E i giudici di legittimità chiariscono, innanzitutto, che ogni lavoratore ha non solo un dovere di porre in essere la prestazione lavorativa, ma anche un diritto alla sua esecuzione, essendo il lavoro «anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino». La Cassazione evidenzia, poi, che a carico del datore grava l'obbligo di adibire il dipendente al lavoro. In caso contrario, se il comportamento non è giustificato dall'esercizio dei poteri imprenditoriali garantiti dal l'articolo 41 della Costituzione o dall'esercizio dei poteri disciplinari (come chiarito dalle sentenze di Cassazione 6265/95 e 11430/2006), la sua condotta è illecita.
La Cassazione prosegue, inoltre, censurando l'operato dei giudici di appello, perché, nella loro decisione, non si sono attenuti a questi principi. Da un lato, hanno inquadrato la condotta come un «demansionamento professionale». Che, in senso proprio, si ha quando un lavoratore è utilizzato in mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione o a quelle successivamente acquisite. Nel caso preso in esame, invece, il datore ha negato al lavoratore lo svolgimento di ogni attività lavorativa, ponendolo in una condizione di forzata inattività. Dall'altro lato hanno escluso, erroneamente, che una condotta del genere possa essere, di per sé, fonte di danno risarcibile.
La Cassazione si sofferma anche su questo ponendo un'interpretazione significativa: un danno non patrimoniale a carico del datore può emergere ogni volta che la sua condotta illecita abbia violato, in modo grave, diritti della persona del lavoratore tutelati dalla Costituzione (in particolare, dagli articoli 32 e 37). Questi diritti, tra cui quello a essere adibito all'attività lavorativa, in quanto non regolati in modo specifico da norme di legge, devono essere individuati dai giudici di merito. Essi, in sede di valutazione del danno risarcibile, dovranno distinguere tra meri pregiudizi (disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità) non risarcibili e danni da risarcire, supportando la valutazione con una motivazione congrua, coerente e rispettosa dei principi giuridici in materia. La Corte d'appello, secondo la Cassazione, non ha proceduto così, ma ha escluso, a priori, alcune voci di danno sull'erroneo presupposto che una forzata inattività non possa essere di per sé fonte di danno.
Inevitabile la conclusione: la sentenza va rinviata ai giudici di merito per essere decisa sulla base dei principi chiariti.
www.ilsole24ore.com