- di Giacomo Perra -
Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Si potrebbe prendere in prestito il titolo di un vecchio successo cinematografico per descrivere il rapporto tra le italiane e il mondo del lavoro.
Una relazione complicata, quindi, fatta per lo più di ingiustizie, consumate sempre e soltanto a vantaggio dei colleghi. La conferma (visto che di novità non si può proprio parlare) arriva da un’indagine, l’ennesima, che, numeri alla mano, racconta storie di ordinaria discriminazione, declinate, appunto, rigorosamente al femminile. Questa volta a far discutere è un rapporto della Fondazione Rodolfo DeBenedetti i cui risultati, anticipati qualche giorno fa da Repubblica, il prossimo 9 giugno a Trani saranno oggetto di una importante conferenza sul tema.
Lo studio, basato sull’osservazione delle carriere di circa trentamila laureati milanesi, diplomatisi tutti nel capoluogo lombardo tra il 1985 e il 2005, evidenzia il problema scegliendo come punto di riferimento la disparità di retribuzione. Secondo le statistiche pubblicate, infatti, indipendentemente dal tipo di impiego e di ceto sociale, le donne guadagnano mediamente il 37 percento in meno degli uomini. E questo nonostante a scuola e negli studi abbiano brillato molto più dei ragazzi. Insomma, il cosiddetto sesso debole quando si tratta di ritirare le buste paga si dimostra, purtroppo, ancora più fragile.
Il dato inedito è che spesso, (per un terzo delle situazioni studiate), la colpa di questo divario è da attribuire alle scelte dello stesso genere femminile. A leggere la relazione, di fatto, l’incidenza del percorso universitario intrapreso risulta molto rilevante nella creazione del gap. Così le donne, che al termine degli studi superiori, decidono in buona parte di preferire un indirizzo umanistico, il meno adatto, stando all’analisi della Fondazione, in funzione di un posto che possa garantire la massima soddisfazione economica, si condannerebbero automaticamente a un ruolo di secondo piano.
La scelta avverrebbe principalmente per due motivi: da un lato per una scarsa, o comunque minore, rispetto ai maschi, tendenza alla competitività, dall’altro per una maggiore propensione al sociale e ai doveri di famiglia, che, pure negli anni dieci del Duemila, paiono dover essere una prerogativa strettamente femminile. Pur lavorando la donna, infatti, sembra avvertire come un “affare” prettamente proprio (ma è anche la politica a farglielo credere) la cura di figli e parenti anziani.
Ma non sono solo questi dati a segnalare le difficoltà del lavoro “in rosa”. A livello nazionale, considerando una stessa occupazione e uno stesso monte-ore, il dislivello nelle remunerazioni raggiunge il 16,4 percento. C’è poi la piaga della disoccupazione che al Sud, tra le ragazze comprese nella fascia tra i 15 e i 24 anni, tocca la percentuale del 52. Inoltre, altro campanello d’allarme, una classifica di Eurostat del 2009 sul contributo femminile al reddito di coppia nei paesi dell’Unione Europea, inquadra l’Italia come nazione maschilista e retrograda, una di quelle in cui gli stereotipi dell’uomo in carriera e della casalinga resistono tenacemente e con successo al tempo che passa.
Le uniche consolazioni, scorgendo le righe della relazione della Fondazione DeBenedetti, riguardano ancora le statistiche sugli anni di studio e poi i dati occupazionali. Nell’individuazione del loro iter formativo, infatti, le ragazze non sono guidate né fanno caso al pensiero di un futuro o eventuale matrimonio di successo, economicamente parlando. Non interessa cioè, in quel momento, sapere che prima o poi si sposeranno e magari lo faranno con un partner più o meno ricco di loro. Un fatto questo estremamente importante. Per quanto concerne la distribuzione delle offerte lavorative, invece, interessante è la dinamica del rapporto di forze uomo-donna. Lavorano più i maschi ma il vantaggio non è consistente; in percentuale si tratta di soli sette punti.